IL PEDONE
di Ray
Bradbury
Entrare in quel
silenzio che era la città alle otto di un'opaca sera di
novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di
cemento raggrinzito, calpestare l'erba cresciuta fra gli
interstizi e aprirsi un varco, con le mani in tasca, in
mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard Mead
amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo
crocicchio e scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi
nelle quattro direzioni, come se sceglierne una
piuttosto che un'altra facesse qualche differenza. Poi,
presa la decisione e stabilito l'itinerario, tornava ad
avviarsi, spingendo davanti a sé, come fumo di sigaro,
volute d'aria gelida.
A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia
e miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo
tutta la strada, lungo case e villini dalle finestre
buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi
barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando
dietro un vetro; con improvvisi fantasmi grigi che
sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni delle
stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la
notte; o con sussurri e mormorii che talvolta giungevano
fino a lui, là dove una finestra, in uno dei tanti
funerei edifici, era rimasta aperta.
Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo,
ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo
passo, sulle lastre di cemento incrinate e sconnesse,
era perfettamente silenzioso; perché, saggiamente, già
da molto tempo s'era deciso a portare scarpe con la
suola di gomma, per le sue passeggiate notturne:
altrimenti i cani avrebbero abbaiato parallelamente a
tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di
colpo, facce sarebbero apparse alle finestre, finché
tutta la strada si sarebbe ridestata al passaggio di una
figura solitaria, lui, in una sera di novembre.
Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte
occidentale della città, verso il mare invisibile. C'era
nell'aria il presagio cristallino del gelo; pungeva la
pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di
Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda
accendersi e spegnersi, tutti i rami carichi
d'invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle
scarpe sulle foglie d'autunno, Leonard Mead prese a
fischiettare tra i denti un motivo sommesso, liscio,
curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia,
esaminando, ripresa la marcia, la sua trama scheletrica
alla luce degli infrequenti lampioni, fiutandone l'odore
rugginoso.
— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra
e a sinistra. — Che c'è di bello stasera sul Quarto
Canale, sul Settimo Canale, sul Nono Canale? Dove
galoppano i cowboys? È forse la cavalleria degli Stati
Uniti che viene alla riscossa, quella nube di polvere
sull'altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra
era l'unica cosa che si muovesse, come l'ombra di un
falco sulla pianura. Se chiudeva gli occhi tenendosi
perfettamente immobile, impietrito, riusciva a
immaginarsi al centro di un'immensa distesa piatta, un
arido deserto senza vento e senza una casa nel raggio di
mille miglia, con l'unica compagnia di tortuosi fiumi
disseccati: le strade.
— Che programma c'è a quest'ora? — chiese alle case,
guardando l'orologio. — Le otto e mezzo. È l'ora di
mezza dozzina di delitti assortiti? O dei quiz? O di un
varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle
casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi
riprese il cammino quando vide che nulla accadeva.
Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente
sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e
dall'erba. In dieci anni di passeggiate, di giorno e di
notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai
capitato di incontrare un altro essere umano che
camminasse come lui per la città; nemmeno uno.
Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e
silenzioso, dove due grandi arterie tagliavano la città.
Durante il giorno un vortice assordante di veicoli lo
trasformava in un immenso insetto frenetico, velato dai
vapori degli scarichi, continuamente dissanguato,
dilatato, e poi di nuovo congestionato, soffocato,
dall'incessante fluire e defluire del traffico. Ma ora
queste grandi strade erano anch'esse corsi d'acqua
inariditi, null'altro che asfalto e pietra e chiaro di
luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era
ormai a un isolato dalla sua porta quando un'automobile
solitaria girò di colpo l'angolo e lo centrò con un
violento cono di luce. Al primo momento egli rimase
immobile; poi, non diversamente da una falena accecata
dal bagliore, si sentì attratto verso la fonte.
Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov'è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma... — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo,
quasi incredibile: in una città di 3 milioni di
abitanti, era rimasta, se ricordava bene, un'unica auto
della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l'anno
delle elezioni, le auto in dotazione della polizia erano
state ridotte da tre a una sola. La delinquenza era
quasi completamente scomparsa; non c'era più bisogno
della polizia, quest'ultima auto solitaria che errava
senza posa per le vie deserte era più che sufficiente.
— Nome e cognome, — disse l'auto della polizia in un
ronzio metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina,
accecato com'era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, - rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l'auto della polizia, come
parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato
come un esemplare da museo, un insetto col corpo
trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva
smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano
più. Tutto - pensò, tornando alle sue meditazioni d'ogni
sera, - tutto ormai si svolgeva di sera, dentro quei
sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso
dello schermo televisivo, in cui gli uomini, simili a
defunti, sedevano davanti alle luci grigie o multicolori
che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli
dentro.
— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo,
sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un
gelo gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell'aria, in casa sua, signor Mead? Ha un
condizionat-re d'aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da
guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé
un'accusa.
— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio
accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie
e silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un
sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l'ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il
piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L'ho fatto per anni, tutte le sere.
L'auto della polizia era acquattata al centro della
strada con la sua gola radiofonica che ronzava
fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c'è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto
metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si
aprì lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di...
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma
con le spalle improvvisamente curve. Mentre passava
davanti al parabrezza guardò nell'interno dell'auto.
Come si aspettava, non c'era nessuno seduto sul sedile
anteriore; non c'era nessuno nella macchina.
— Salga.
Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile
posteriore, che era una piccola cella, una piccola
prigione nera, con le sbarre. Odorava di acciaio.
Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida
pulizia, di duro metallo. Non c'era nulla di soffice là
dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse
testimoniare, — disse la voce di ferro. — Ma così come
stanno le cose...
— Dove mi portate?
La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero,
brevissimo ronzio, e uno scatto, come se un braccio
meccanico, nel suo interno, chissà dove, facesse
scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico.
— Al Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze
Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo
morbido. L'auto scivolò via tra i viali notturni,
preceduta dai suoi fari fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in
una certa via, l'unica casa in una città di case buie,
che avesse tutte le sue luci accese, ogni finestra viva
e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio di
novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L'auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi,
lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi,
dove non un suono, non un movimento turbavano più la
fredda notte d'autunno.
(da S. Solmi-C. Fruttero, a cura di, Il secondo libro di
fantascienza, trad. di C. Fruttero, Einaudi,Torino,
1961) |