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Soldati di Francia e torbiere di Franciacorta 
di Gianni Bergamaschi

 Napoleone III

 Preston e Wise, nella loro Storia sociale della guerra (Arnoldo Mondadori, 1973, p. 256), affermano che “nella seconda guerra di Indipendenza italiana (1859) l’obiettivo del Piemonte era la liberazione d’Italia, un obiettivo di natura chiaramente totale. Secondo altri (F. Nardini, op. cit., p. 162), invece,“questa improvvisata unità, non sentita né partecipata dalla stragrande maggioranza degli italiani” cominciarono a governarla i liberali moderati che, fiduciosi nella guerra regia dei Savoia, si erano ispirati alle idee e all’azione spregiudicata del conte Camillo Cavour, il quale, in modo del tutto insperato, si trovava tra le mani “un regno a cui due anni prima non pensava affatto

Ma quali erano gli obiettivi di Napoleone III e in quale modo concretamente egli li perseguì?

Si tratta di questioni a cui è possibile rispondere in modo accettabile solo attivando e intersecando “contenitori concettuali” diversi, A e B : dalla demografia alla tecnologia, dalla politica interna e internazionale alla sociologia, dalla geografia all’economia, all’arte e persino alla psicologia. 

Innanzitutto vanno brevemente richiamati i principali eventi politico-sociali. 

La II Repubblica francese (dopo la chiusura degli Atéliers nationaux, voluta dal nuovo governo appena insediatosi, a seguito delle elezioni politiche indette nell’aprile del 1848, elezioni a suffragio universale e vinte a larga maggioranza dai moderati, che avevano prevalso soprattutto nelle campagne e nei villaggi, mentre i democratici e i socialisti avevano ottenuto risultati assai scarsi, e la repressione della rivolta operaia scoppiata a Parigi nel giugno ’48 con l’appoggio di democratici e socialisti) imboccò decisamente la strada della reazione. Nella nuova costituzione non si parlava più di “diritto al lavoro”, le imposte dirette proporzionate al reddito venivano cancellate, l’istruzione non era più gratuita e la libertà dei cittadini risultava decisamente ridimensionata. “L’elezione alla presidenza di Luigi Bonaparte dimostrò chiaramente che la grande borghesia finanziaria e industriale francese era anche disposta a rinunciare a tutte le sue aspirazioni costituzionali, pur di assicurarsi solide posizioni di predominio economico all’interno del paese” (Fabietti, op. cit., p. 139). Napoleone III, eletto primo presidente della II Repubblica con i due terzi dei voti del corpo elettorale francese, rappresentava monarchici, bonapartisti, repubblicani conservatori e clericali che indistintamente vedevano in lui “la possibilità di respingere la minaccia popolare e di rafforzare le istituzioni più tradizionali. La reazione trionfava così anche in Francia, dove la borghesia repubblicana non aveva voluto inoltrarsi sulla via della democrazia ed era rimasta insensibile al problema delle masse operaie” (Fabietti, op. cit., p. 136). Il colpo di stato del dicembre 1851, a cui seguirono sanguinose repressioni, arresti, processi e deportazioni (Algeria, Caienna), e l’ulteriore plebiscito mediante cui, esattamente un anno più tardi, il Bonaparte si proclamava, a mo’ di sovrano assoluto, “imperatore dei francesi” con il nome di Napoleone III, rappresentarono il trionfo di tutto un processo reazionario architettato dalla grande borghesia cittadina, timorosa di ogni novità politico-sociale. A vantaggio di quest’ultima, Napoleone III favorì lo sviluppo industriale del paese, l’accumulazione di capitali (banche, ferrovie, compagnie di navigazione, industrie, miniere) e un rapido sviluppo dei commerci con l’estero. 

Tra le “determinanti” (ma qui sarebbe interessante articolare il polisemico concetto di “causa” in alcune tra le sue più calzanti accezioni: movente, motivazione, ragione, pulsione, fattore scatenante, occasione, congiuntura, giustificazione, provocazione, scusa, pretesto, causa finale, obiettivo, interesse, ecc.), primarie o secondarie, della politica estera dell’imperatore, soprattutto in relazione alla situazione italiana, possiamo ricordare le seguenti: 

1)      riportare la nazione francese al rango di grande potenza perduto con il Congresso di Vienna, rovesciando la costruzione innalzata nel 1815 contro Napoleone I, rompendo la “cerchia di ferro” che soffocava la Francia, colpendo nell’Austria e nella Russia i suoi principali esponenti, restituendo al paese il suo primato di “guida dell’Europa delle nazionalità, dei popoli redenti e risorti” (F. Valsecchi, Considerazioni sulla politica europea di Napoleone III, in “Rivista storica italiana”, 1950). Egli aveva, quindi, una valida ragione per aiutare gli italiani a liberarsi dalla dominazione straniera: con un’Italia indipendente e alleata, infatti, l’influenza francese sull’Europa si sarebbe allargata a danno dell’impero asburgico(AA.VV., Corso di storia, vol. II, Archimede edizioni, 1997);

2)      insediare sovrani francesi nell’Italia centrale (Gerolamo Bonaparte) e meridionale (con molta probabilità, Luciano Murat), salvo restando il Lazio al pontefice, al fine di estendere la propria influenza sulla penisola (ragion per cui, fortemente contrariato dalle richieste di annessione al Regno di Sardegna entusiasticamente avanzate dalle popolazioni dell’Italia centrale, all’indomani della battaglia di Solferino e S. Martino, Napoleone III “tradì” il Cavour sottoscrivendo l’armistizio di Villafranca);

3)      impedire che la situazione italiana degenerasse nel senso di un sopravvento da parte dei gruppi più radicali (attentato di Felice Orsini);

4)      salvare i rapporti con il papato;

5)      non tirare troppo la corda con l’opinione pubblica francese, rischiando di perderne l’appoggio politico e morale;

6)      distrarre le masse dai problemi costituzionali interni (Preston e Wise, op. cit., p. 300);

7)      “soddisfare la sua sete di gloria e le sue vaghe aspirazioni liberali (Preston e Wise, op. cit., p. 256) : progetti “fumosi e anacronistici” (Fabietti, op. cit., 183). 

Il Piemonte, dal canto suo, non aveva in quegli anni la più piccola speranza di potercela fare contro l’oppressore austriaco senza l’aiuto di Napoleone III; il non facile, anche se fruttuoso esito (“felice” unicamente dal punto di vista politico-militare, dal momento che l’indescrivibile gravità e l‘orrenda bestialità di quella strage generale consumatasi tra Solferino e S. Martino ispirarono allo svizzero Henri Dunant, che tristemente visitò nella sera i luoghi della battaglia, l'istituzione della Croce Rossa Internazionale nel 1863; lo stesso imperatore francese ne restò profondamente scosso, quasi non si attendesse nulla di simile, tant’è vero che anche i mezzi di soccorso destinati ai feriti si dimostrarono adeguati alle necessità soltanto da parte piemontese e soprattutto bresciana, mentre ne furono ben al di sotto da quella francese) della battaglia del 24 giugno 1859 lo dimostrò. 

Ma che cosa assicurava ai corpi d’armata francesi un così decisivo potere d’impatto, una simile forza d’urto?

In occasione della battaglia di Solferino (quella di S. Martino e della Madonna della Scoperta fu combattuta dai soli piemontesi) l’imperatore francese e i suoi generali “ritenevano di avere sconfitto gli austriaci con l’impeto delle loro colonne armate di baionetta. In realtà, l’attacco era penetrato in profondità solo perché il nemico era stato demoralizzato dal bombardamento devastatore dei nuovi cannoni francesi a canna rigata e perché le colonne erano protette da nugoli di fucilieri che sparavano stando al coperto” (Preston e Wise, op. cit., p. 257). L’osservatore svizzero Dunant restò in quell’occasione sconvolto dagli effetti spaventosi delle straordinarie armi usate dai francesi (240 “pezzi”, contro i 309 austriaci, evidentemente non altrettanto micidiali). Napoleone non se ne rese conto. Francesco Giuseppe… sì.

E’ davvero un fatto curioso: ad un imperatore che doveva le proprie vittorie soprattutto alla furia distruttiva di un completo schieramento di cannoni all’ultimo grido, piacevano irresistibilmente le tradizionali armi d’asta, cioè le baionette collocate all’estremità di fucili o moschetti.

A Brescia, dove nel giugno del ’59 attraversava le vie del centro scortato dalle sue scenografiche cento guardie a cavallo, Napoleone III comprava il cuore dei bresciani quando, assieme al re Vittorio Emanuele II, volle salire fino al Castello. Lassù, mentre il sovrano piemontese onorava in devoto raccoglimento la fossa presso la quale a decine erano stati fucilati i patrioti bresciani delle Dieci giornate, egli si interessò agli spalti e chiese notizie riguardo alle celebri fabbriche d’armi bresciane delle quali si era avvantaggiato il primo Napoleone. 

Uno studio complessivo della figura di Napoleone III può generare con estrema naturalezza, indipendentemente da ogni valutazione “scientifica” e analitica di tutto quanto lo riguardi, un’impressione piuttosto spiacevole, nella sua globalità (proprio nel senso della Gestaltpsychologie), come se qualcosa in lui “non tornasse”, come se ci si trovasse di fronte ad un personaggio non autentico, narcisisticamente “costruito” e, all’occorrenza, “schizoide” o, per lo meno, incongruente.

Una volta membro della Costituente, egli appariva sempre più, agli occhi di moderati e reazionari, l’uomo “forte”, capace, in grazia del prestigioso nome che portava, di restaurare l’ordine tradizionale nella società francese in subbuglio.

Ma già il socialista francese Proudhon, in una magistrale prova di raffinato utilizzo del “simbolismo dei colori” (rosso e nero), ne dava un’inquietante visione figurativa: “Fino a qualche giorno fa il cittadino Bonaparte era solo un punto nero in un cielo di fuoco; l’altro ieri era un pallone gonfio di fumo; oggi è una nuvola che porta nel suo ventre la folgore e la tempesta.

Fino al 26 giugno del ’48, per le strette vie del centro di Parigi gli operai si batterono fino alla disperazione in cima alle barricate erette ovunque, ma la repressione che ne seguì (affidata al feroce generale Cavaignac) fu davvero spietata, e riuscì a fare letteralmente a pezzi l’“idra” socialista. Napoleone III, ormai all’apogeo dell’impero, volle trasformare radicalmente il volto della città, sventrandone il cuore e sostituendo ai luoghi strategici della ribellione popolare grandi boulevard che consentissero un più facile controllo delle persone e dei loro movimenti.

Eppure, il sovrano era stato eletto anche grazie ai voti di quei democratici che ne ammiravano il passato da carbonaro…

Dopo il 1860, esattamente negli stessi anni in cui si dava da fare per impedire che in futuro si potessero erigere delle nuove barricate, l’imperatore cercò di guadagnarsi anche il consenso della popolazione delle campagne e, presentandosi come difensore ed interprete dei ceti lavoratori, nel 1863 concesse il diritto di sciopero.

Intanto, l’uomo “forte” appariva, nella realtà, sempre più debole (la sua campagna italiana scatenò contro di lui la profonda ostilità dei cattolici francesi, e il sovrano, per riguadagnare il sostegno della Chiesa, si imbarcò in una disastrosa guerra contro il governo repubblicano messicano a difesa degli interessi cattolici; nel frattempo, sottovalutava l’emergere della potenza tedesca che di lì a poco lo avrebbe stroncato).

Agli inizi del ’59, mentre sembrava che la situazione italiana logicamente evolvesse verso la guerra, e Cavour già pregustava il frutto della sua abile costruzione diplomatica, l’Inghilterra, poco disponibile ad ammettere un conflitto che avrebbe giovato unicamente alla Francia, propose alle potenze interessate la riunione di una conferenza volta a risolvere diversamente il problema italiano. In quell’occasione, l’uomo “forte”, sollecitato dal clero francese attraverso l’imperatrice Eugenia, fu costretto ad accogliere l’iniziativa inglese

A Lonato, il 23 giugno 1859, durante una conversazione riservata con Vittorio Emanuele II, Napoleone mostrava al proprio interlocutore una lettera recentemente inviatagli dall’imperatrice. Vi si parlava di “certi disegni della Confederazione germanica, dell’avvicinarsi delle truppe prussiane a Coblenza e a Colonia, della insufficienza delle forze lasciate in Francia per resistere a una possibile invasione prussiana, dell’imperiosa e pronta risoluzione che l’imperatore doveva prendere di rimandare in Francia parte dell’esercito d’Italia. Gli faceva considerare le terribili conseguenze di una disfatta sul Reno, e lo invitava a profittare delle vittorie ottenute, per concludere una pace vantaggiosa e tornare in Francia, a far cessare il malcontento prodottosi a poco a poco per il minaccioso avanzarsi della Prussia” (Enrico Morozzo Della Rocca, Autobiografia di un veterano. Ricordi storici e aneddotici, Bologna, Zanichelli, 1897, I, pp. 458-475).

A parte le sottolineature (che, come in parecchie tra le altre citazioni qui presentate, sono nostre), si è voluto riportare interamente il passaggio non tanto per ragioni di contenuto, quanto per far avvertire nella giusta misura la consistenza delle strategie illocutorie e perlocutorie (Ducrot-Todorov, Dizionario Enciclopedico delle Scienze del Linguaggio, ISEDI, 1972, pp. 350 e 368) esercitate dall’imperatrice/adulto/soggetto sul fragile oggetto/bambino/imperatore. Se ne sarebbe certamente tornato in Francia dalla sua “imperatrice-mamma/padre”, se poche ore dopo gli austriaci non avessero oltrepassato nuovamente il Mincio per riprendere lo scontro con gli alleati sulla riva destra. L’emergenza lo costrinse ad agire nella direzione voluta dai fatti, non da lui, ma poi nulla gli impedì, nei giorni successivi, dopo le sanguinosissime battaglie del 24 giugno, di tornare a sentire una grande nostalgia per la propria “casa” in pericolo (anche perché i suoi progetti italiani andavano sfumando) e così, la sera del 7 luglio 1859, si decise a mandare un proprio generale da Francesco Giuseppe “per rimettergli una lettera, nella quale gli proponeva una sospensione d’armi seguita da un armistizio” (Della Rocca, op. cit.). L’indomani, l’imperatore austriaco rispondeva affermativamente, fissando l’incontro richiesto per il giorno 11, a Villafranca.

La cosa, ovviamente, mandò su tutte le furie Cavour, il quale, raggiunto Vittorio Emanuele II il giorno 10 in uno stato di grande irritazione ed eccitazione, ebbe con lui un colloquio animatissimo (che il sovrano definì “insolente e sconveniente”). Con Napoleone la conversazione non fu più serena: lo statista piemontese lo accusò di non aver osservato i patti (intera liberazione dell’Italia settentrionale dalle Alpi all’Adriatico) e minacciò “di farsi capo d’una rivoluzione, piuttosto che di lasciar l’opera troncata a mezzo” (Della Rocca, op. cit.). “Ma finalmente, volete che per voi si sacrifichi la Francia e la nostra dinastia?”, fu la risposta dell’imperatore francese. Il Cavour, incapace di rassegnarsi, avrebbe voluto, a quel punto, che i piemontesi continuassero la guerra da soli. Un’autentica follia (cinquanta o sessantamila uomini contro un esercito di oltre duecentomila soldati disciplinati e valorosi!), che fa dello stesso Cavour un ulteriore soggetto clinicamente interessante.

Certamente più amabile, nella sua concreta e semplice umanità, Vittorio Emanuele, autentico “re galantuomo”: “J’accepte pour ce qui me concerne” .

Tornando a Napoleone III, sembra che egli apprezzasse in qualche modo l’arte, o per lo meno, la pittura, persino quella delle nuove leve che, magari, come nel caso di Jules Breton, nato a Courriers (Pas-de-Calais), nell’Artois, realisticamente andavano rappresentando le umili condizioni di un ceto dimenticato, quello dei poveri ma dignitosi contadini. Compiendo un gesto che con una certa difficoltà si riesce ad inquadrare nel suo antidemocratico “stile”, l’imperatore francese acquistò Le rappel des glaneuses, opera dal nobile e commovente contenuto sociale, e altre quattro tele di Breton, pagandole 8.000 franchi. 

Dunque, l’asso nella manica delle truppe francesi era costituito dalla modernissima artiglieria (cannoni d’acciaio con più precisa alesatura e rigatura della canna) di cui esse si avvalevano. Il processo Bessemer per la produzione dell’acciaio fu introdotto nel 1856 allorché proprio Napoleone III fece richiesta di un acciaio che fosse in grado di resistere ai nuovi proiettili esplosivi. “Il processo Bessemer, a insufflazione d’aria calda, e il processo Gilchrist abbassarono notevolmente i costi di produzione dell’acciaio e ne generalizzarono l’uso, al posto del ferro, nell’artiglieria pesante degli ultimi decenni dell’Ottocento (Preston e Wise, op. cit., p. 295).

Certamente le “nuove tecnologie” rivestirono un ruolo di prim’ordine durante la II guerra di indipendenza.

Le truppe francesi si mossero rapidamente utilizzando la ferrovia che collegava Alessandria a Novara (frutto dell’illuminata politica cavouriana di qualche anno prima), e questo procurò loro un notevole vantaggio su quelle austriache.

Anche i soldati piemontesi che, in un bel quadro di G. Bossoli, Vittorio Emanuele II riceve alla stazione tra la popolazione entusiasta, giunsero a Brescia in treno.

Dopo il 1856, infatti, i lavori ferroviari avevano subìto una notevole accelerazione, sotto la spinta dei grandi investimenti compiuti dalle banche parigine e, subito dopo la guerra del 1859, la rete piemontese fu congiunta a quella lombarda mediante il ponte di Boffalora sul Ticino (G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, 1860-1871, Feltrinelli, Milano, 1968).

 Il giorno della battaglia di Solferino e S. Martino, l’esercito francese era inoltre dotato di un “pallone frenato” in grado di elevarsi fino a 900 metri, consentendo una soddisfacente visione panoramica riguardo a quanto stava accadendo su un fronte di circa 12 chilometri. Il fatto che poi da lassù non si riuscisse neppure a capire se le truppe austriache stessero avanzando o ritirandosi, è tutta un’altra questione.

 
 

  

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