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Gianni Spinelli, Riforma della scuola e insegnamento della storia: un seminario a Brescia

 

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Vale la pena di ricordarlo: se due anni fa, di questi tempi, la proposta di riforma elaborata per la storia dal Gruppo di esperti coordinato dai prof. Antiseri, Mori, Cajani e Timpanaro poté divenire oggetto della vera e propria "battaglia dei curricoli" - come ebbe a definirla Antonio Brusa - che tutti ricordiamo, ciò fu possibile anche e soprattutto perché tale proposta era il frutto di un lavoro collegiale svolto in seno a una Commissione di studio: formalmente istituita dal Ministro, con atto e mandato pubblico; nota, dunque, nella sua composizione, sicuramente rappresentativa (malgrado, nel caso di storia, qualche assenza rilevante); che si sforzava di interpretare al meglio le più significative esperienze di riflessione, ricerca e sperimentazione didattica degli ultimi vent'anni; che  operava alla luce del sole; che dava corretta diffusione agli esiti, anche intermedi, della propria attività; che non si negava al confronto. Tutte circostanze, queste, che allora nessuno riteneva di dover nemmeno rilevare, tanto ci apparivano quali ordinarie e ormai consolidate condizioni minime di qualsiasi attività finalizzata a istruire democratici processi di riforma della scuola. Come ci sbagliavamo!

Oggi accade che delle Indicazioni e delle Raccomandazioni del Ministero per il Progetto nazionale di sperimentazione, allegate al DM 100/2002 e disponibili in Internet, non sia dato sapere neppure chi ne sia l'estensore materiale! Non solo: da luglio un documento chiave come le Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola Primaria ha conosciuto, per quanto concerne la storia, ben tre versioni differenti, senza che di ciò sia stato dato, o si dia, alcun "avviso ai naviganti"; va da sé, si capisce, che non è dato sapere nemmeno sulla base di quali osservazioni critiche - e avanzate da chi? - si sia ravvisata l'esigenza di rettificare il testo. Nessun margine di comunicazione con il MIUR, infine, è previsto o consentito a chi intendesse far valere opinioni a riguardo. 

E l'opinione pubblica? Un silenzio che assorda. Se non fosse per i soliti - pochi - siti Internet per addetti ai lavori, da cui si leva qualche voce, anche alta, ma isolatissima, la preoccupata "auscultazione" dei media indurrebbe a un'unica e raggelante conclusione: che "non gliene frega niente a nessuno", nemmeno ai  diretti interessati.  Eppure in questi documenti ministeriali c'è la storia scolastica che per ora tocca a chi sperimenta, ma domani potrebbe toccare - e toccherà - a tutti. Che cosa c'è alla base di tutto ciò? Disaffezione, indifferenza, scoramento, rassegnazione, senso di impotenza, indignazione muta? Di sicuro un impressionante vuoto di informazione e confronto. Colpevole chi deliberatamente lo determina e se ne avvale, ma da deplorare pure la passività di chi lo consente e di chi lo subisce.

Fermamente determinato a non condividere tale acquiescenza, il Coordinamento provinciale fra le reti di storia di Brescia, ha deciso di dedicare una giornata seminariale, patrocinata dal locale CSA, alla questione Quale storia nella scuola a venire? La proposta di riforma: prospettive e strategie culturali; a dibatterla pubblicamente sono stati invitati Giuseppe Bertagna, Giuliana Sandrone (che fa parte del gruppo di lavoro, coordinato da Bertagna stesso, che presso l’Università di Bergamo svolge funzioni di monitoraggio del Progetto nazionale di sperimentazione), Ivo Mattozzi e Antonio Brusa.

Il seminario, prima vera occasione di pubblico contraddittorio sul tema, si è tenuto il 21 gennaio nell’aula magna dell’ITC Lunardi, gremita di insegnanti di storia delle scuole bresciane “di ogni ordine e grado”, ma anche di dirigenti scolastici e di esperti di chiara fama, privati evidentemente, questi ultimi, della possibilità di interloquire in più istituzionali consessi.

La defezione dell’ultimissima ora  del prof. Bertagna, motivata da impegni accademici concomitanti, ha certo tolto un forte motivo di interesse al pomeriggio, dal momento che ha negato ai presenti l’opportunità di assistere a un confronto diretto fra chi ha detenuto massime responsabilità nel processo di istruzione del disegno di riforma della scuola e alcune fra le più autorevoli voci che la didattica della storia italiana abbia espresso negli ultimi due decenni.

La circostanza, che gli stessi Brusa e Mattozzi non hanno naturalmente mancato di lamentare, non ha tuttavia inficiato l’assoluto rilievo degli esiti del seminario, di cui cerchiamo, di seguito, di rendere sinteticamente conto.

 

Giuliana Sandrone ha inteso dare un taglio prevalentemente informativo al suo intervento, che è stato dunque assorbito in larga misura dall’illustrazione di quanto previsto, per la storia, dai documenti allegati al Progetto nazionale di sperimentazione, in particolare dal Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istruzione (6-14 anni) e dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati, sia nella Scuola primaria che in quella Secondaria di I grado. Nel corso e al termine di tale illustrazione, la Sandrone ha posto in evidenza, e commentato, alcune delle scelte operate dagli anonimi estensori degli Obiettivi specifici di apprendimento:

-         è previsto che lo studio  della storia generale sia affrontato due volte: una prima volta a cavallo fra le ultime due classi della Scuola primaria (dalle “grandi civiltà dell’Antico Oriente” alla dissoluzione dell’impero romano) e le tre della Scuola secondaria di I grado (dall’Alto Medioevo al ‘900); una seconda volta nell’intero arco della Scuola secondaria superiore;

-         se nelle prime tre classi della Scuola  primaria lo studio della storia ha una configurazione predisciplinare, in IV e V l’approccio diviene dunque sistematico, disciplinare;

-         la scelta di assegnare alla III media lo studio di ‘800 e ‘900 (da Napoleone all’”integrazione europea”) si motiva da un lato con la volontà di porre rimedio all’ attuale compressione in due soli anni della storia precedente il ‘900, imposta dal “decreto Berlinguer”; dall’altra con l’esigenza che gli studenti, nell’ultimo anno di effettivo obbligo scolastico, si concentrino sulla parabola storica della moderna istituzione stato dalla forma centralistica a quella “poliarchica” prevista dal nuovo Titolo V della Costituzione italiana.

La Sandrone ha richiamato l’esigenza che la disamina e la valutazione delle Indicazioni relative alla storia poggino anche e soprattutto su un’adeguata considerazione del contesto curricolare entro cui risultano collocate e dal quale traggono fondamento e, a suo dire, tratti di coerenza e praticabilità.

Ha insistito, anzitutto, sul fatto gli Obiettivi specifici di apprendimento, previsti per ogni disciplina dalle Indicazioni, hanno sì carattere prescrittivo, rappresentando in tal modo una garanzia contro un’ipotetica deleteria frammentazione della dimensione curricolare del sistema scolastico, ma solo in quanto “materia prima”, cui le singole istituzioni scolastiche, coerentemente con quanto previsto dall’art. 8 del Regolamento in materia di autonomia, dovrebbero perciò dare concreta fisionomia sotto forma di “obiettivi formativi”, funzionali al conseguimento delle competenze finali previste dal Profilo dello studente. Gli Obiettivi, insomma, andrebbero assunti non come una rigida “tabella di marcia”, così come si è teso a fare sin qui con i programmi vigenti, bensì come una sorta di “geografia epistemologica dell’insegnante”.

La lettura e la traduzione in atto degli Obiettivi, poi, dovrebbero tenere conto che la loro stesura ha obbedito al principio dell’ologramma; dunque proporsi il superamento del disciplinarismo esasperato, dell’idea anacronistica che le abilità professionali specifiche costituiscano un fine, e non piuttosto un mezzo per promuovere la complessiva evoluzione dell’allievo, e riconoscere la necessità di “lavorare sui confini” tra disciplina e disciplina, sfruttando e valorizzando, nelle pratiche didattiche, tutte le “risonanze” pluridisciplinari dei diversi temi.

Infine la Sandrone ha sostenuto che le proposte educative che informano la Sperimentazione, per tradursi fattivamente in atto, impongono di sfruttare in massima misura la flessibilità organizzativa: i documenti che ne definiscono l’impianto, infatti, pongono al centro di ogni processo formativo, anche nella sua dimensione logistica, il singolo studente, e non il gruppo classe, che cessa perciò di costituire l’unica modalità organizzativa dell’apprendimento.

Giuliana Sandrone, dopo aver espresso la convinzione che gli Obiettivi specifici di apprendimento - che ha insistito a definire “bozze” - abbiano tenuto nel dovuto conto l’opportunità di valorizzare le esperienze “di eccellenza” elaborate nelle scuole italiane negli ultimi anni, ha chiuso il proprio intervento sostenendo la necessità di generalizzare la pratica del laboratorio di storia.

 

Ivo Mattozzi, che sul “Bollettino di Clio” del novembre 2002 già aveva condotto un’articolata critica delle proposte ministeriali,  ha aperto il suo intervento affrontando l’angolare questione del metodo adottato dal MIUR per pervenire ai documenti in discussione. Ha severamente contestato, prima di tutto, l’assoluto anonimato degli estensori di Profilo, Indicazioni e Raccomandazioni e la totale assenza di informazione circa i criteri e le modalità che ne hanno orientato il lavoro, rilevando che alla scarsa trasparenza e all’infimo tasso di democraticità della procedura sin qui seguita, si aggiunge l’aggravante che non esistono, né sono previsti, spazi e modi ufficiali per esprimere opinioni e avanzare rilievi critici a riguardo, dunque per proporre un costruttivo apporto d’idee.

Considerazioni, queste, che trovano particolare e palese riscontro nella questione, già segnalata in apertura, delle pesanti, peggiorative modifiche apportate, fra luglio e novembre, al testo delle Indicazioni per la Scuola primaria: per iniziativa di chi, a rettifica di quali presunti limiti del testo, a soddisfazione di quali volontà culturali e pedagogiche? Mistero.

Mattozzi ha posto anche la questione della validazione delle indicazioni ministeriali, che, ha osservato, non può che conseguire da solidi riferimenti all’epistemologia storiografica, alla psicologia cognitiva, alla metodologia e alla didattica della storia, alle “pratiche eccellenti”; riferimenti dei quali non c’è invece alcuna traccia nei testi allegati al DM 100, neppure in termini di semplici rinvii bibliografici.

 

Il presidente di Clio ’92 si è poi concentrato sul nodo del rapporto fra le Indicazioni e il contesto su cui esse intenderebbero incidere, contesto del quale ha richiamato i tratti a suo parere più “caldi”:

-   l’annosa questione della formazione dei docenti, del carente modello di cultura storica che la maggior parte di essi ha ricavato dalla propria esperienza scolastica e universitaria e che tende perciò a perpetuare insegnando;

-   il delicato e decisivo tema del rapporto fra i giovani, il passato e la storia, posto all’attenzione generale, e con crescente gravità, anche in ambito scolastico, dalla spesso sterile relazione degli studenti con la materia;

-   in contrasto con ciò, la felice affermazione, negli anni, di esperienze didattiche ed editoriali decisamente innovative;

-   il problema dell’applicazione/disapplicazione dei programmi vigenti, nelle scuole come nelle redazioni delle case editrici.

Chi ha elaborato i documenti ministeriali ha preso le mosse, come sarebbe stato ovvio e corretto, da un’attenta disamina di tale contesto, da una valutazione puntuale dei punti forti e di quelli deboli dell’esistente? A parere di Mattozzi la lettura di tali documenti fornisce alla domanda una risposta decisamente negativa: la proposta ministeriale si limita a riaffermare con forza il tradizionale paradigma della storia scolastica, vale a dire la storia generale intesa come racconto della genesi e dello sviluppo della civiltà euroccidentale; unilineare, cronologica, raccontata per filo e per segno, fondata su “fatti, eventi, personaggi” politico-istituzionali; un modello che non ha mai dato gli esiti attesi, che ha prodotto e produce noia e incultura storica, che ha una struttura difficile, improponibile, a un tempo, ai bambini della primaria così come agli adolescenti della secondaria. E a proposito di primaria, Mattozzi ha anzi sottolineato che le Indicazioni cestinano, della Riforma dell’85 – non esente da limiti, ma aperta, liberale e funzionale all’innovazione -, tutte le parti non coerenti con tale modello, facendo così compiere alla scuola elementare un ferale passo indietro, verso i vecchi programmi Ermini (si pensi alla suggestione di una formulazione quale  “fatti, personaggi esemplari evocativi di valori”: la riscossa di Muzio Scevola…).

 

Venendo alla sostanza delle Indicazioni, Mattozzi, non avendo il tempo di condurre una critica articolata e di dettaglio dell’intero documento, ha scelto di concentrarsi su pochi aspetti, e su uno, cruciale, in particolare: la clamorosa, pressoché totale assenza, nei contenuti previsti dagli Obiettivi specifici, della “dimensione mondo”. Detto della gravità assoluta, da qualunque prospettiva la si osservi, di una tale scelta, Mattozzi ha attirato l’attenzione sulla palese contraddizione, a riguardo, fra quanto previsto dal Profilo e quanto disposto dalle Indicazioni: come sarà possibile promuovere negli studenti la capacità di “orientarsi nello spazio e nel tempo, operando confronti costruttivi fra realtà geografiche e storiche diverse, per rendersi più consapevoli, da un lato, delle caratteristiche specifiche della civiltà europea e, dall’altro, delle somiglianze e delle differenze tra la nostra e le altre civiltà mondiali”, se i contenuti non prevedono la possibilità di affrontare temi di storia extraeuropea? E analogamente: come perseguire, stante il medesimo vincolo, l’abilità, prevista per la classe III media, di “distinguere tra storia locale, regionale, nazionale, europea, mondiale, e coglierne le connessioni, nonché le principali differenze”?

E che dire, per rimanere alle contraddizioni, dei “quadri di civiltà”, previsti sia nella primaria che nella secondaria di I grado, ma solo in termini di abilità e non di contenuti?

Da tali contraddizioni, solo le più evidenti, Mattozzi ha tratto spunto per chiudere il suo intervento indicando agli insegnanti una possibile “via di salvezza”, peraltro ben nota e da sempre praticata, quella di disattendere i programmi: sfruttare le contraddizioni interne ai documenti ministeriali per giustificare scelte più intelligenti di quelle proposte dagli anonimi estensori degli Obiettivi specifici (ad esempio affrontare la storia extraeuropea, trasgredendo con ciò le Indicazioni, ma in nome del rispetto del Profilo); adottare, in nome dell’autonomia, un’interpretazione radicale della facoltà, concessa alle istituzioni scolastiche dalle Indicazioni, di convertire gli Obiettivi specifici in obiettivi formativi; selezionare, dal complesso degli Obiettivi medesimi, quelli più dignitosi e sensati, a discapito di quelli più insostenibili. Accorte forme di parziale disobbedienza civile, insomma, in nome dell’intelligenza pedagogica e didattica.

 

Primo tema affrontato da Antonio Brusa è stato quello della storia del Novecento. Dopo aver rammentato le tante ragioni che, nel 1996 come oggi, deponevano e depongono a favore di scelte programmatiche che consentano ai giovani di affrontarne distesamente lo studio, nonché la stupida idea, tutta italiana e dura a morire, che la storia non possieda gli strumenti per affrontare il passato recente, ha osservato che aver concentrato nell’ultimo anno della scuola media “fatti, personaggi, eventi” dall’età napoleonica, addirittura, fino ai giorni nostri, obbligherà di fatto gli insegnanti a trasgredire; magari nel modo classico e deteriore ante “decreto Berlinguer”, cioè sacrificando  ciò che segue a vantaggio di ciò che precede, in nome dell’intrasgredibilità del dogma dello sviluppo rigorosamente cronologico del programma. Con buona pace del Novecento o di gran parte di esso.

Brusa è poi tornato, a distanza di due anni dalle polemiche che investirono la Commissione Berlinguer-Di Mauro, sull’annosa questione dei cicli di storia generale. Ha ribadito la sua opinione favorevole a un aggiornato “racconto generale del passato del mondo”, ma ha pure sottolineato che ripeterlo più volte, da qualunque punto d’osservazione si guardi al problema, non serve e può anzi risultare dannoso. Tanto più che la storia generale non è affatto l’unica modalità di approccio didattico alla storia, come le pratiche sperimentate negli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato e come confermano, se necessario, i curricoli di altri paesi, ove la storia generale è di norma affrontata una sola volta.

Tutta la letteratura didattica concordava, due anni fa, sul fatto che tre cicli di storia generale fossero decisamente troppi, ma alla proposta della Commissione, che prevedeva un solo ciclo, i detrattori replicarono: “meglio due”. Su quale motivazione pedagogica o didattica poggiava e poggia questa posizione, interpretata dal cosiddetto “curricolo Vitolo” e di fatto ora pienamente recepita dalle Indicazioni? Di fatto su nessuna. Si tratta forse, allora, di una scelta imposta dalla tradizione pedagogica nazionale? Ma la ripetizione ciclica della storia generale, si sa – o si dovrebbe sapere - è un modello scolastico di origine prussiana, introdotto in Italia da Pasquale Villari nel 1880 e non senza difficoltà. Più probabile, piuttosto, è che la sua difesa a oltranza si fondi soprattutto su due convinzioni  di fondo: che quando l’approccio alla storia si fa disciplinare, non possa esservi altro che storia generale; che il racconto generale del passato, così com’è strutturato, non produca buoni risultati e che vada quindi ripetuto. Convinzione del tutto erronea, la prima; fondata, la seconda, ma inconfessabile.

Se poi si ritiene, ha proseguito, che il senso del ciclo di storia generale sia quello di costruire un ordito narrativo in cui ogni tappa consente di comprendere la successiva, allora è bene che il ciclo sia quanto più possibile breve, onde evitare che lo studente giunto verso il termine del percorso scopra d’aver dimenticato completamente le tappe affrontate per prime. Rischio che certo non hanno tenuto presente gli estensori delle Indicazioni quando hanno scelto di distendere il primo ciclo di storia generale su ben cinque anni abbondanti, dalla III elementare (in cui vengono confinati preistoria e passaggio “all’uomo storico nelle civiltà antiche”) alla III media, trascurando tra l’altro di tenere nel debito conto le profonde differenze fra l’attrezzatura  cognitiva ed esperienziale di un bambino di 8/9 anni e quella di un preadolescente di 14.

 

Le Indicazioni orientano fortemente lo studio della storia alla conoscenza e alla consapevolezza delle origini giudaico-cristiane e greco-romane di Italia ed Europa, dunque  a finalità di tipo eminentemente identitario. Dopo aver ricordato che a partire dagli anni ’50 del secolo scorso in tutti i paesi a democrazia avanzata si prese opportunamente a ridimensionare, nei curricoli, tali finalità, specie bilanciandole con quelle di natura cognitiva, Brusa ha sottolineato come oggi i programmi di tali paesi, grazie a tale evoluzione,  siano gli unici a non asservire lo studio della storia a mere finalità identitarie. L’insistenza delle Indicazioni sulle origini e sull’identità locale, nazionale ed europea sono, come pare, il segno di una sconfortante, pericolosa deriva verso modelli di insegnamento della storia affini a quelli dei paesi del III Mondo e di quelli ex comunisti? Denunciano la volontà dell’Italia di rinunciare a condividere, con il resto dell’Europa occidentale, la civilissima posizione di baluardo della storia a dimensione interculturale? Parrebbe proprio di sì.

E poi: chi ha stabilito che le radici debbano sempre avere la forma della carota, che l’identità sia sempre e soltanto il prodotto dell’ipotetica azione stratigrafica del tempo nell’angustia di uno spazio limitato? L’identità, realtà complessa, è sempre e inevitabilmente attribuita dagli altri, è il risultato di una contrattazione con gli altri, che non possono dunque essere esclusi da tale dinamica, come invece contraddittoriamente prevedono i contenuti proposti dal MIUR.

 

Brusa ha chiuso riprendendo alcuni spunti dell’intervento della Sandrone. Anzitutto quello relativo alla didattica laboratoriale, che naturalmente va incentivata e diffusa; risultato che, tuttavia, non si consegue se tra gli obiettivi ci si limita a proporre “fatti, eventi, personaggi” e non si allarga il campo a “processi e problemi”, pena la realizzazione, nella migliore delle ipotesi, di laboratori stereotipi e privi di peso specifico: pas de problèmes, pas d’histoire.

Per quanto concerne, poi, il richiamo all’interdisciplinarietà, Brusa ha osservato che questa si riduce però a mero incrocio di argomenti se a ciascuna disciplina si pretende di declinare in dettaglio i rispettivi contenuti, come fanno le Indicazioni, anzichè, come sarebbe giusto, proporre agli insegnanti quattro/cinque processi di largo respiro pluridisciplinare da interpretare didatticamente secondo le rispettive esigenze e i rispettivi bagagli professionali. A questo proposito, anzi, Brusa si è chiesto come si spieghi il completo azzeramento, anziché, come sarebbe stato lecito attendersi, la generalizzazione della logica dell’ambito disciplinare; tanto più se, anche qui, si guarda all’Europa e si considera che in tutti i curricoli dei paesi simili al nostro la storia risulta sempre collocata in un’area, naturalmente quella geostorico-sociale.

E infine: sta bene il richiamo alla flessibilità organizzativa come a una della chiavi per la traduzione in atto delle Indicazioni; che si rivela però peregrino e demagogico se poi si impone, ad esempio, di affrontare, nelle poche ore annualmente riservate alla storia, “fatti, eventi, personaggi” relativi a ben 16 contenuti di base, come nel caso della III media.

 

Ai tre interventi ha fatto seguito un vivace dibattito, durante il quale i relatori hanno anche avuto modo di replicare alle reciproche osservazioni. Fra i temi emersi, o riproposti, il sensibile “arretramento” dei documenti allegati al Progetto nazionale di sperimentazione rispetto allo stesso Rapporto finale del Gruppo Bertagna; i margini di apertura del MIUR a eventuali contributi critici (la Sandrone non ha potuto che limitarsi a garantire che avrebbe rappresentato l’istanza a Bertagna); il rapporto fra sperimentazione e DDL di riforma della scuola; l’impraticabilità pedagogica del nuovo modello di scuola primaria, con maestro prevalente e discipline gerarchizzate; il timore di veder azzerate le tante esperienze “di eccellenza” consolidatesi nelle scuole italiane.

 

E ora? L’auspicio è che l’iniziativa di Brescia non rimanga isolata, che in altre realtà si organizzino analoghe occasioni di confronto pubblico sul tema, che tutti i soggetti che hanno ragione sociale e strumenti per farlo, si attivino con iniziative capaci di garantire l’espressione d’idee, la documentazione, l’informazione costante; occorre che i tanti operatori scolastici – insegnanti, dirigenti, esperti - che non condividono il destino che si prepara per la storia nel quadro della riforma della scuola, possano contare su punti di riferimento stabili, su forme di raccordo, su luoghi reali e virtuali ove poter realizzare una severa e intelligente opera di riflessione comune e di vigilanza.

Si segnala, intanto, che all’URL http://www.itcgeinaudi.it/retestoria/index.htm è possibile visionare una pagina web specificamente dedicata a storia e riforma della scuola; in particolare sono disponibili i materiali distribuiti in occasione del Seminario e altri sul tema. 

link nel sito


La revisione dei curricoli di storia: le risorse in Internet
a cura di Gianni Spinelli




Rete Brescia
Quale storia nella scuola a venire
di Gianni Spinelli

iperstoria
Verso i nuovi programmi di storia
di Antonio Brusa

 

 

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