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Paul Ginsborg,    

STORIA D'ITALIA

DAL DOPOGUERRA

A OGGI

Torino, Einaudi, 1989

 

 
 

 

 

 

 

 

 


Il centro dello studio di Ginsborg è la grande trasformazione che ha attraversato la società italiana nella seconda metà del XX secolo e che ha fatto del nostro Paese una moderna società industriale, rispetto al Paese sostanzialmente agricolo che era stato fino agli ani cinquanta.

Questo processo è stato dirompente, si è caratterizzato come un vero e proprio boom economico che ha enormemente aumentato la ricchezza complessiva del Paese e il benessere degli Italiani. Fino agli inizi degli  anni cinquanta l'Italia era rimasta un Paese arretrato, nel quale le limitate isole industriali, quasi esclusivamente concentrate nel triangolo Torino-Milano-Genova, galleggiavano in un ambiente economico ancora fortemente dominato dall'agricoltura e da tradizionali attività artigianali e commerciali. Questo modello economico aveva generato una società povera, nella quale la maggioranza della popolazione, composta di contadini, braccianti e operai, viveva con redditi molto bassi che consentivano di soddisfare a stento i bisogni primari.

A distanza di vent'anni di quest'Italia si erano quasi perse le tracce. L'Italia era diventata la sesta potenza industriale del pianeta, pienamente inserita nel ristretto numero delle società ad alto livello di benessere. Tra i fattori che avevano favorito questo grande balzo economico andava annoverato l'aumento dei consumi interni: gli italiani erano diventati consumatori dei beni di consumo di massa (automobili, elettrodomestici, mobili, televisori, prodotti alimentari) messi a disposizione da un'industria nazionale tra le più avanzate del continente, in grado di competere sul mercato internazionale con i colossi americani ed europei. Buona parte di questi nuovi consumatori erano i contadini che nel corso di un'emigrazione dalle dimensioni colossali avevano abbandonato le campagne e le tradizionali attività rurali per trasferirsi nelle città: si verificarono infatti lo spopolamento dei centri agricoli del Mezzogiorno e dell'Italia centrale e la crescita abnorme delle periferie urbane di Milano, Torino, Genova, Roma, Napoli, nelle quali si riversava una popolazione presto assorbita dall'industria.

La crescita determinò quindi una straordinaria modificazione demografica ed economica: l'Italia si trasformò in Paese industriale con la maggioranza della popolazione residente nelle città e addetta ad attività non agricole.

Inevitabilmente ad essa fecero seguito cambiamenti nei comportamenti collettivi: i valori propri di una società tradizionale - la frugalità, il risparmio, l'attaccamento alla terra, il rispetto delle gerarchie familiari e sociali, la devozione - cedettero il passo a quelli propri della società moderna.

Questi tratti sono ulteriormente accentuati nel successivo ventennio da un'altrettanto grande trasformazione: la progressiva deindustrializzazione di tante aree del Paese e l'affermazione di un sistema economico basato sul terziario.

All'interno di questo quadro Ginsborg colloca sia l'analisi delle contraddizioni sociali che caratterizzarono il boom economico, sia la storia del sistema politico italiano.

Per quel che riguarda il primo aspetto, lo storico inglese appunta la sua attenzione soprattutto sul fatto che il grande sviluppo economico non si sia tradotto in un analogo sviluppo civile del Paese, non solo nel senso della permanenza di forti disuguaglianze sociali e territoriali, ma in particolare della notevole distanza tra i cittadini e lo Stato. La carenza di adeguate politiche pubbliche a sostegno dei bisogni collettivi ha lasciato spazio ad un attaccamento marcato alla famiglia, vissuta da larghi strati della popolazione come presidio degli interessi individuali. Il familismo ha impedito che i cittadini fossero capaci di agire per il bene comune e in molti casi percepissero quest'ultimo come alternativo e antagonistico al bene individuale. I rapporti tra famiglia e società si sono dunque dispiegati in maniera distorta. Questa distorsione ha alimentato la diffusione di pratiche clientelari che l'hanno, a loro volta, favorita e alimentata. Tra i fattori che hanno determinato l'affermazione del clientelismo, Ginsborg annovera l'azione dei partiti di governo e segnatamente della Democrazia cristiana, che  soprattutto negli anni '50 e '60 hanno concepito l'azione di sostegno dello Stato verso i ceti sociali meno abbienti come dispensazione paternalistica di sussidi e prebende: il diritto si è presentato sotto forma di favore da scambiarsi con un altro favore, il voto. Clientelismo e familismo hanno determinato una fisionomia specifica del carattere nazionale degli Italiani, che pesa come una tara profonda: possono esservi ascritti come esiti estremi anche la diffusa corruzione e fenomeni di criminalità come la mafia e la camorra.

Il secondo aspetto riguarda il sistema politico che Ginsborg vede caratterizzato dalla prevalenza dei grandi partiti di massa che hanno trovato la loro legittimazione nella Resistenza al nazifascismo e che sono stati strumento di democratizzazione del Paese su cui aveva gravato un ventennio di dittatura, ossia hanno svolto il ruolo di canali di partecipazione politica di vastissimi strati di popolazione da sempre estranei alla vita civile.

I meriti dei partiti però non possono offuscare gli elementi negativi: lo sguardo dello storico si posa soprattutto sulla Democrazia cristiana e sul Partito Comunista italiano, che costituivano le più significative forze politiche italiane. Alla prima Ginsborg imputa non solo la diffusione del clientelismo, ma soprattutto la mancanza di una strategia di lungo respiro in grado di accompagnare e di orientare la grande trasformazione in corso. I valori della cultura politica democristiana, fondati sul trinomio "cattolicesimo-americanismo-fordismo" riuscirono a far presa sulla maggioranza dell'opinione pubblica e si radicarono nella società, in particolare in quella meridionale, che diede a questo partito la maggior parte del suo personale politico; tuttavia dalla DC  non scaturì un indirizzo politico capace di guidare il cambiamento: esso quindi si dispiegò liberamente senza che la politica fosse in grado di orientare verso fini di interesse collettivo le straordinarie dinamiche del mercato. Il risultato fu la formazione di una nazione ricca, ma piena di contraddizioni e con un debole spirito pubblico.

A questo risultato contribuì anche il PCI, che non riuscì mai a portare veramente a termine la sua metamorfosi da partito rivoluzionario legato al blocco sovietico a partito socialdemocratico pienamente occidentale. La sua azione fu dunque inficiata dall'assenza di cultura riformista, alimentando un antagonismo sociale radicale, ma fine a  se stesso, che impedì al PCI di porsi come alternativa praticabile al moderatismo democristiano.