Eric Maria Remarque

da Niente di nuovo sul fronte occidentale

un ferito nella terra di nessuno

Passano i giorni, e ogni ora è al tempo stesso inconcepibile e naturalissima. Gli attacchi si alternano coi contrattacchi e sul terreno devastato, fra le trincee, si ammucchiano i morti. Dei feriti, per lo piú siamo in grado di raccogliere quelli che non son caduti troppo lontano; ma gli altri giacciono a lungo abbandonati, e li sentiamo morire.
Ve n'è uno, che cerchiamo invano per due giorni. Probabilmente è caduto sul ventre e non si può voltare; non si spiega altrimenti come non sia possibile rintracciarlo: solo quando si grida cosí con la bocca rasente terra, riesce difficilissimo stabilire la direzione.
Avrà preso un brutto colpo, una di quelle ferite rognose, che non sono gravi abbastanza da consentire alla vita di spegnersi lentamente in uno stato di semicoscienza, né d'altra parte abbastanza leggere per far sopportare il dolore con la speranza di guarigione. Kat pensa che deve trattarsi di una frattura del bacino o di una pallottola nella spina dorsale: il torace non deve essere colpito, altrimenti il ferito non avrebbe tanta forza per gridare: e se fosse colpita qualche altra parte, si dovrebbe vederlo muoversi.
A poco a poco la voce si fa piú rauca. Essa ha un suono cosí infelice, che potrebbe venire da qualsiasi parte. Nella prima notte, tre volte i nostri sono usciti. Ma quando credono d'aver trovato la direzione, e si avanzano carponi a quella volta, ecco che la voce sembra ad un tratto provenire da tutt'altro punto. Fino all'alba cerchiamo invano; durante la giornata si esplora sistematicamente il terreno coi cannocchiali, ma senza risultato. Il secondo giorno la voce si fa piú fievole: la gola e le labbra devono essersi inaridite.
Il nostro comandante di compagnia ha promesso a chi lo troverà un anticipo di licenza e tre giorni in piú come premio. E’ uno stimolo potente, ma anche senza di quello faremmo tutto ciò che sta in noi, perché quel gridare continuo è spaventevole.
Kal e Kropp escono persino durante il giorno. Alberto ci rimette il lobo d'un orecchio, per una fucilata. Tutto inutile, il ferito non si trova. Eppure si capisce che cosa grida. Da principio non ha fatto che chiamare aiuto, ma durante la seconda notte deve aver avuto la febbre, parlava con la moglie e coi figli, spesso si distingueva il nome di Elisa. Oggi raion fa che piangere. Verso sera la voce si spegne in un singhiozzo: ma continua a gemere tutta la notte. Lo urliamo bene ancora, perché siamo sotto vento. La mattina, quando crediamo che sia ormai in pace, ci giunge ancora un rantolo soffocato.
Le giornate sono calde, e i morti giacciono insepolti. Non possiamo raccoglierli tutti, non sapremmo che cosa farne. Ci pensano le granate a sotterrarli. Alcuni hanno la pancia gonfia coane palloni: gorgogliano, ruttano e si muovono: è il gas di cui sono pieni.
Il cielo è azzurro, senza nubi. La sera è afosa, e la caldura sale su dalla terra. Quando il vento soffia dalla nostra parte porta l'odore del sangue, greve, dolciastro, nauseabondo: questo miasma di morte delle trincee che pare misto di cloroformio e di putredine e ci è causa di malessere e di vomiti.

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