Le
pinze In
quei giorni, il maggiore Carriera, comandante del 2° battaglione del
nostro reggimento, era stato promosso tenente colonnello. A lui fu
affidato il compito di dirigere l'assalto nel nostro settore. Anche il
mio battaglione fu messo alle sue dipendenze, per l'azione. Egli era
uomo di grande volontà. Il generale Leone lo stimava moltissimo. Ed
egli stimava egualmente il generale. Tutti e due erano fatti per
intendersi. Dal momento in cui gli fu affidata l'azione, non chiuse
occhio né di giorno né di notte. Egli voleva essere d'esempio. Era
instancabile. Dopo aver passato la notte insonne, la mattina faceva
un'ora di ginnastica svedese ed esigeva che la facesse anche il suo
aiutante maggiore. Di debole costituzione fisica, questi finí col
perderci la salute. La
notte, i tubi furono fatti brillare. Io avevo fatto nascondere le pinze
del mio battaglione. All'alba, il tenente colonnello le reclamava e
invano il capitano Bravini le cercava. Fu giocoforza rinunziare alle
nostre pinze. Il
tenente colonnello chiamò il suo aiutante maggiore e gli chiese: -
Abbiamo ancora pinze al 2°
battaglione? Io
speravo ch'egli dicesse di no, perché io l'avevo prevenuto. Anch'egli
era stato sul Carso e conosceva l'esito dell'impiego delle pinze. Il
tenente aiutante maggiore fece uno sforzo di raccoglimento e rispose: -
Signor sí, ne abbiamo ancora sette, di cui cinque in ottimo stato. Tre
grandi e due piccole. Ma
un dubbio lo turbò. Tirò un taccuino di tasca e si corresse: -
Di cui quattro in buono stato. Due grandi e due piccole. Egli
era un professore di greco del bolognese ed era esatto sempre, anche nei
dettagli piú apparentemente insignificanti. Io
ero vicino a lui, e gli dissi, sottovoce, con dispetto: - Tu farai
carriera con le tue pinze. -
Io faccio il mio dovere, - mi rispose, tranquillo. Le
pinze, tutte e sette, furono subito portate. La luce dell'alba
cominciava a rischiarare il bosco, ma in modo cosí tenue che ci si
vedeva appena fra di noi. -
Capitano, - ordinò il tenente colonnello al mio comandante di
battaglione, - faccia uscire un ufficiale e due soldati per riconoscere
i reticolati ed allargare con le pinze le brecce di passaggio. Il
capitano ordinò che il tenente Avellini, della 9a compagnia, uscisse
con due soldati. Il tenente era un giovane ufficiale di carriera,
arrivato al battaglione in quei giorni. Il tenente si presentò,
ascoltò gli ordini e non disse una parola. Prese le pinze, ne
distribuí una ad ogni soldato, e ne tenne una per sé. Scavalcò la
nostra trincea con un salto, e sparí, seguito dai due soldati. Passarono
alcuni minuti, senza il minimo rumore. Le fucilate delle vedette
continuavano, normali. Io facevo delle considerazioni al capitano
Bravini: -
Occorrérà della luce perché i nostri possano riconoscere i reticolati
e tagliare i fili. E se c'è della luce, vedranno anche gli austriaci e
tireranno sui nostri. Bisognerebbe che le trincee nemiche fossero vuote. Il
capitano era nervoso. Non parlava. Anch'egli si rendeva conto che
l'operazione era difficile. S'era già bevuta mezza borraccia di cognac. Dalla
trincea nemica partirono piú colpi. Non erano i tiri delle vedette.
Seguirono altri colpi, poi tutta la linea aprí il fuoco. I nostri erano
stati scoperti. Dalla nostra trincea, noi non potevamo vedere
chiaramente. -
Non c'è dubbio, - mormorai al capitano Bravini, - gli austriaci tirano
sui nostri. Operazioni simili non si possono fare che di notte, al buio.
Ma di notte non si vede. Quindi non si possono fare né di notte, né di
giorno. Ci vuole l'artiglieria. Senza artiglieria, non si va avanti. -
Ci vuole l'artiglieria, - ripeteva il capitano. E non si sapeva staccare
dalla borraccia. Anche
il tenente colonnello era nervoso. Camminava su e giú per la trincea,
senza parlare. Il suo aiutante maggiore lo seguiva, anch'egli su e giú,
come un'ombra. Dalle
feritoie, a due passi dalla nostra trincea, vedemmo spuntare dai
cespugli il tenente Avellini con un soldato. Buttammo a terra qualche
sacchetto, e li aiutammo a rientrare. Il soldato era ferito alla gamba.
Il tenente aveva la giubba passata da parte a parte, ai fianchi, in piú
punti, ma senza una scalfittura. Egli riferí al tenente colonnello.
L'altro soldato era morto sotto i reticolati. Gli austriaci avevano,
durante la notte, buttato altri cavalli di frisia nei tratti in cui i
reticolati erano stati rotti dai tubi. La linea si sarebbe potuta
traversare solo in qualche punto, ma passando per uno. Gli austriaci
avevano dato l'allarmi. Le pinze non tagliavano. Egli
aveva ancora in mano la sua pinza e la mostrò al tenente colonnello.
Nella nostra trincea v'erano rotoli di filo spinato. Prese l'estremità
d'un filo e l'afferrò con la pinza. Le lame della pinza scivolavano sul
filo, senza intaccarlo. Il tenente colonnello guardava, contrariato.
Prese anch'egli la pinza e volle provare a rompere il filo. Malgrado i
suoi esercizi di ginnastica svedese, egli aveva una struttura fisica
impacciata e poco mancò non rimanesse ferito.
Tentò a piú riprese, ma inutilmente. Il filo rimase intatto e le pinze
gli caddero di mano. Il
professore di greco prese una delle pinze che erano rimaste per terra,
una delle sette, e la provò sul filo. La pinza tagliava. -
Ma questa taglia benissimo, - disse trionfante al tenente colonnello. -
Taglia? - chiese questi. -
Sí, signor colonnello, taglia.
-
Allora, - disse il tenente colonnello, - dobbiamo ancora tentare. -
Ma non si tratta di pinze, - dissi io, mettendomi a fianco del capitano
e rivolgendomi a lui. - Le pinze potrebbero tagliare tutte quante ed
essere le migliori pinze dell'esercito, ma la situazione rimane la
stessa. Gli austriaci attendono ai varchi e tireranno a bruciapelo su
quanti si avvicineranno ai reticolati, con pinze o senza pinze. -
Qui comando io, - disse il colonnello, - e io non ho chiesto la sua
opinione. Il
mio capitano non parlò ed io non risposi. Il
tenente colonnello chiese al capitano Bravini il nome di un altro
ufficiale del battaglione da mandare sotto i reticolati. Senza
resistenza, il capitano suggerí il nome del tenente Santini e aggiunse
che nessuno, come lui, conosceva il terreno. Per un portaordini, mandò
a chiamare Santini. Ora, la luce dell'alba si era fatta piú viva e noi
potevamo distinguere tutto l'andamento delle trincee nemiche. Non ci
voleva molto per capire che si mandava Santini a morire inutilmente. Io
azzardai ancora un'obbiezione: -
Ora c'è molta piú luce, - dissi. - Inoltre, Santini è uscito, anche
stanotte, con i tubi. Non si potrebbe rinviare all'alba di domani? Il
mio capitano non osò dire una parola. Il tenente colonnello mi rivolse
uno sguardo ostile e mi disse: -
Si metta sull'attenti e faccia silenzio! Il
professore di greco continuava ad andare in giro con le pinze e mostrava
a tutti, ufficiali e soldati piú vicini, che erano in ottimo stato. Il
tenente Santini arrivò seguito dal suo portaordini. Il tenente
colonnello gli spiegò quello che si voleva da lui e gli chiese se
volesse offrirsi volontario. Egli era audace e aveva troppo orgoglio. Io
avevo paura ch'egli rispondesse di sí. Mi avvicinai alle sue spalle e
gli sussurrai, tirandogli le falde della giubba: -
Di' di no. -
È un'operazione impossibile, - rispose Santini. - È troppo tardi. -
Io non le ho chiesto, - ribatté il tenente colonnello, - se sia presto
o tardi. Io le ho chiesto se si offre volontario. Io gli tirai ancora le
falde della giubba. -
Signor no, - rispose Santini. Il
tenente colonnello guardò Santini, quasi non prestasse fede alle sue
orecchie, guardò il capitano Bravini, guardò me, guardò tutto il
gruppo di ufficiali e di soldati che erano addossati alla trincea,
vicino a noi, ed esclamò: -
Questa è codardia! -
Lei mi ha posto una domanda, io le ho risposto. Non è questione né di
codardia, né di coraggio. -
Lei non si offre volontario? - chiese il tenente colonnello. -
Signor no. -
Ebbene, io le ordino, dico le ordino, di uscire egualmente, e subito. Il
tenente colonnello parlava calmo, la sua voce aveva l'espressione d'una
preghiera gentile, quasi supplichevole. Ma il suo sguardo era duro. -
Signor sí, - rispose Santini. - Se lei mi dà un ordine, io non posso
che eseguirlo. -
Ma un ordine simile non si può eseguire, - dissi io al capitano,
con la speranza che intervenisse. Ma egli rimase muto. -
Prenda le pinze, - ordinò il tenente colonnello, con la voce dolce e
gli occhi freddi. Il
tenente aiutante maggiore s'avvicinò con le pinze. Mi passò vicino. Io
non potei frenarmi e gli gridai: -
Potresti uscire tu, con coteste tue pinze della malora. -
Esca dunque, tenente, - ordinò. - Signor sí, - disse Santini. Santini
prese le pinze. Si slacciò dal cinturone un pugnale viennese dal corno
di cervo, trofeo di guerra, e me l'offerse. -
Tienilo per mio ricordo, - mi disse. Era
pallido. Estrasse la pistola e scavalcò la trincea. Il portaordini, che
nessuno di noi aveva notato, dopo il suo arrivo in compagnia del
tenente, prese una pinza e uscí dalla trincea. Io
ero ancora con il pugnale in mano. Il capitano Bravini beveva alla
borraccia. Mi buttai alla feritoia piú vicina e vidi i due, dritti in
piedi, uno a fianco dell'altro procedere, a passo, verso le trincee
nemiche. Era già giorno. Gli
austriaci non sparavano. Eppure i due avanzavano allo scoperto. In
quel punto, fra le nostre trincee e quelle nemiche, non vi erano piú di
cinquanta metri. Gli alberi erano radi e i cespugli bassi. Se si fossero
buttati a terra, sotto i cespugli, sarebbero potuti arrivare non visti,
almeno fino ai reticolati. Santini rimise la pistola nella fondina e
avanzò con in mano le sole pinze. Il portaordini gli era sempre a
fianco, con il fucile e le pinze. Traversarono il breve tratto e si
fermarono ai reticolati. Dalle trincee, nessuno sparò. Il cuore mi
batteva come un martello. Levai la testa dalla feritoia e guardai la
nostra trincea. Tutti erano alle feritoie. Quanto
tempo rimasero dritti, di fronte ai reticolati? Io non ne ho ricordo. Santini
fece infine, ripetutamente, con la mano, un gesto verso il suo compagno
per farlo ritornare indietro. Forse, egli pensava di poterlo salvare. Ma
il gesto era il movimento stanco d'un uomo scoraggiato. Il soldato
rimase al suo fianco. Santini
s'inginocchiò accanto ai reticolati e, con le pinze, iniziò il taglio
dei fili. Il portaordini fece altrettanto. Fu allora che, dalla trincea
nemica, partí una scarica di fucili. I due stramazzarono al suolo. Dalle
nostre trincee, un fuoco di mitragliatrici e di fucileria, rabbioso e
vano, rispose come rappresaglia. Mi
levai dalla feritoia e cercai il professore di greco. Io lo investii: -
Ora che avete compiuto una cosí bella operazione, potete anche andare a
mangiare, soddisfatti. Egli
non mi rispose, e mi guardò con pena. Aveva le lacrime agli occhi. Ma
io ero troppo in rivolta per potermi contenere. -
Ora, tu e il tuo stratega avete il dovere di uscire, tutti e due di
pattuglia, con le tue pinze, e continuare il lavoro che Santini e il suo
portaordini hanno interrotto. -
Se mi ordinano di uscire, - rispose, - io esco immediatamente. Il
tenente colonnello preparava l'assalto dei due battaglioni per le otto.
Il comandante di reggimento e il comandante di brigata vennero in linea
e lo fecero sospendere. La notte arrivarono le corvée con tubi e cognac. L'azione dunque sarebbe stata ripresa. |