Tubi
di gelatina e filo spinato La
guerra di posizione ricominciava. I sogni di manovra e di vittoria
fulminea svanivano. Bisognava ricominciare daccapo, come prima, sul
Carso. Seguirono
alcuni giorni di calma. I reparti si dovevano ricostituire. Ogni giorno
arrivavano complementi di ufficiali e di soldati. Pian piano, si
dimenticavano i morti e ci si affratellava, fra veterani e nuovi
arrivati. Di
fronte alle trincee nemiche, a distanze varie, fra i cinquanta e i
trecento metri, seguendo l'andamento del terreno e la copertura del
bosco, anche noi costruimmo le nostre trincee. Erano le nostre case,
ché gli austriaci, ormai sulla difensiva, non pensavano certo ad
attaccarci. Ma dovevamo essere prudenti ad ogni istante. Avevamo, di
fronte, reparti di tiratori scelti che non sbagliavano un colpo.
Tiravano raramente, ma sempre alla testa, e con pallottole esplosive. Anche
quei giorni di calma passarono. Affrettatamente, il battaglione si era
ricomposto Un'altra azione si annunziava
prossima. Arrivavano, ogni giorno, munizioni e tubi di gelatina. Erano i
grandi tubi di gelatina del Carso, lunghi due metri, costruiti per
aprire dei varchi fra i reticolati. E arrivavano pinze tagliafili. Le
pinze e i tubi non ci erano serviti mai a niente, ma arrivavano
egualmente. E arrivò il cognac, molto cognac: eravamo dunque alla
vigilia dell'azione. I comandi avevano stabilito che il prossimo assalto fosse preceduto da un largo impiego di tubi di gelatina da far esplodere, la notte prima, sotto i reticolati nemici, nel punto stabilito per l'assalto, l'azione del mio battaglione doveva precedere, con quella del 1° battaglione del 400°, il reggimento compagno della brigata.
(..)
La
notte, mettemmo i tubi di gelatina. Ne avevamo dieci al comando di
battaglione, affastellati come tronchi d'albero. Dovevamo farli brillare
tutti e dieci. I giovani ufficiali ne ignoravano l'impiego e il tenente
Santini ed io dirigemmo l'operazione. Mettere e far esplodere sotto i
reticolati nemici dei tubi di gelatina, di notte, in terreno coperto,
era un'operazione estremamente facile per chi fosse abituato ai servizi
di pattuglia. Anche se dalle linee nemiche si sparava, il pericolo era
minimo. Ma bisognava avere i nervi a posto. Nel
battaglione scegliemmo i soldati fra i volontari che si offrirono. Il
comando del reggimento dava un premio di dieci lire a ogni soldato. Per
un tubo, erano necessari due uomini: dieci tubi, venti uomini. « Zio
Francesco » era fra i volontari. Nove vennero con me, nove con Santini.
Io scelsi « zio Francesco » con me. Avevo
con me tutti i soldati veterani del Carso e non avevo bisogno di dare
molte spiegazioni. All'ora fissata, bevuto il cognac, uscimmo dalle
trincee, il mio gruppo a sinistra, verso il 400°, quello di Santini a
destra. Uscimmo dalla stessa breccia, e ci spiegammo a ventaglio, a
coppie di due, a una decina di metri l'una coppia dall'altra. Le trincee
nemiche distavano una sessantina di metri. Per
chi non sia abituato, fa una certa impressione abbandonare il riparo
della trincea, uscire e trovarsi allo scoperto, di fronte ai tiri di
fucile delle vedette nemiche. Il novizio dice: « Sono stato visto;
questa fucilata è per me ». Invece, non è niente. Le vedette tirano,
di fronte a loro, senza un bersaglio preciso, a caso, nel buio. La
notte era oscura. Portavamo il tubo a mano: io ero in testa, « zio
Francesco » dietro. Dove ci sentivamo sicuri, camminavamo in piedi;
dove eravamo piú scoperti, carponi. Le vedette tiravano sempre, un
colpo dopo l'altro senza agitazione. Ma dove andavano a finire tutte
quelle pallottole? Non ne sentivamo una sola passare vicino a noi. Un
razzo luminoso si levò di fronte, poi un altro, a destra, poi ancora un
altro. «
Che non ci sia un allarme? » io pensai. Col respiro trattenuto, in
piedi, cosí come eravamo stati sorpresi dal primo razzo, rimanemmo
immobili, qualche secondo, finché l'ultimo razzo non cadde a terra e si
spense. Il tiro delle vedette continuò lentamente, come prima. Erano
razzi ordinari. Non eravamo stati avvistati. Camminavamo
piano, arrestandoci ad ogni istante. Il lieve rumore dei nostri passi
era coperto dal rumore dei tiri delle vedette, austriache e nostre.
Anche le nostre vedette continuavano a sparare, come prima della nostra
uscita, ma per aria, per far rumore e non colpirci. Dovevamo tuttavia
procedere con prudenza; una pattuglia nemica poteva trovarsi in agguato,
dietro i cespugli che noi eravamo obbligati a traversare. Altri razzi
venivano sparati, ora a sinistra, ora a destra. La nostra immobilità
sotto la luce dei razzi ci confondeva con i cespugli e con i tronchi
d'albero. Non era possibile fossimo riconosciuti. Arrivammo
ai reticolati e ci fermammo, a terra. Al chiarore di un razzo lontano,
distinsi il muro della trincea, oltre i reticolati, e, nel muro, le
feritoie, come macchie nere. Per schivare il tiro d'una vedetta che
sparava di fronte, io avevo obliquato leggermente a sinistra. Ma la
sentinella stava ancora cosí vicino a noi che io sentivo, dopo ogni
colpo, il bossolo della cartuccia sparata cozzare contro il muro della
trincea e rimbalzare per terra, sui sassi. Incominciammo
ad infilare il tubo sotto il reticolato, quando alla nostra destra, a
parecchie decine di metri da noi, l'oscurità della notte fu rotta da un
bagliore, accompagnato da un'esplosione dilaniante. Il primo tubo di
gelatina brillava. Guardai l'orologio che avevo al polso: le lancette di
fosforo segnavano le tre. Doveva essere il tubo di Santini. Avevamo
stabilito che il primo tubo, fosse il suo o il mio, non esplodesse prima
delle tre. Egli era stato piú preciso di me. Una pioggia di schegge e
di sassi s'irradiò tutto attorno. Ci schiacciammo ancora piú contro
terra. Una
ventina di razzi si levarono lungo tutta la linea, anche oltre il nostro
fronte, e le mitragliatrici aprirono il fuoco. L'allarmi era stato dato. Una
seconda esplosione seguí alla prima, e, subito dopo, una terza. I razzi
si moltiplicavano, disordinatamente, nel cielo, nelle piú disparate
direzioni. La vedetta che ci era vicina non perdette la calma. Non gridò
l'allarmi e continuò a sparare, lentamente, come prima. Anch'egli
doveva essere un veterano. Ma, piú a destra, il fuoco delle mitragliatrici
e dei fucili era furioso. Le truppe dovevano essere accorse in linea.«
Zio Francesco » non dava segni di vita. Ma io lo sentivo egualmente
vicino, e il lieve odore del suo sigaro continuava ad arrivare fino a
me. Egli prima d'uscire, aveva acceso un sigaro, e lo teneva con la
parte accesa dentro la bocca. Con esso, doveva accendere la miccia del
tubo. Cosí fumato, il sigaro nascondeva il fumo e durava piú a lungo.
Voltai la testa e lo scorsi, vicino, steso, le spalle contro terra,
faccia al cielo, sigaro in bocca. Egli doveva apprezzare quello
spettacolo pirotecnico che gli austriaci ci offrivano gratis. Non poteva
averne visto di piú belli, per la festa del santo patrono, nel suo
piccolo villaggio. E anch'io, in quel momento, vidi tutto il cielo
traversato dai razzi. Tutti quei fuochi, al di sopra del bosco di abeti,
sembravano illuminare le colonne e le navate di un'immensa basilica. Mezz'ora
dopo, eravamo rientrati nelle nostre linee. I dieci tubi erano tutti
esplosi. Facemmo l'appello dei presenti: nessuno mancava. Solo un
soldato del gruppo di Santini era stato ferito ad una gamba. Prima
di raggiungere i loro reparti, i soldati finirono assieme il cognac
destinato ai volontari. |