Decimazione
L'8
giugno, gli austriaci, prevedendo l'offensiva, fecero brillare la mina
sotto Casara Zebio, quella per cui noi avevamo passato la notte di
Natale in linea. La mina distrusse le trincee, seppellí i reparti che
le presidiavano, insieme con gli ufficiali di un reggimento che vi si
erano fermati durante una ricognizione. La posizione fu occupata dal
nemico. L'avvenimento fu considerato come un cattivo presagio.
Il
10, la nostra artiglieria aprí il fuoco alle 9 del mattino. La grande
azione che andava, per cinquanta chilometri, da Val d'Assa a Cima
Caldiera, era iniziata. Sull'Altipiano, comprese le bombarde pesanti da
trincea, non v'erano meno di mille bocche da fuoco. Un tambureggiamento
immenso, fra boati che sembravano uscire dal ventre della terra,
sconvolgeva il suolo. La stessa terra tremava sotto i nostri piedi.
Quello non era tiro d'artiglieria. Era l'inferno che si era scatenato.
Ci eravamo sempre lamentati della mancanza d'artiglieria: ora l'avevamo,
l'artiglieria.
I
reparti erano stati ritirati dalle trincee e solo poche vedette le
presidiavano. Il 1° e il 2°
battaglione del reggimento erano
ricoverati nelle grandi caverne scavate durante l'inverno. Il 3°
battaglione era con tutte e quattro le compagnie allo scoperto, sulla
linea dei due ridottini retrostanti. Le piccole caverne ivi esistenti
erano occupate dagli artiglieri da montagna, che vi avevano la batteria,
e dai nostri mitraglieri.
L'artiglieria
nemica controbatté, con i grossi calibri, le nostre batterie, ma non
tirò sulla prima linea. Sulla nostra prima linea tirò solo la nostra
artiglieria.
Quello
che avvenne non fu sufficientemente chiarito. Alcune batterie da 149
e da 152 da marina tirarono su
di noi. I battaglioni che erano nelle caverne non ne soffrirono, ma il
mio ebbe, fin dall'inizio, gravi perdite. Il maggiore Frangipane, ch'era
rientrato da pochi giorni, fu colpito fra i primi ed io
assunsi il comando del
battaglione. La linea dei due ridottini, nei quali il mio battaglione
aveva l'ordine di rimanere, fu rasa al suolo. Essi erano stati costruiti
contro i tiri di fronte, non contro quelli alle spalle. La 9°
e 10° compagnia furono
dimezzate. Il tenente Ottolenghi fece uscire i mitraglieri dalle caverne
e, riordinatili all'aperto, gridava:
-
Bisogna marciare sulle batterie che tirano su di noi e mitragliarle!
Io
lo vidi a tempo, accorsi e l'obbligai a riprendere il suo posto. Feci
spostare di qualche centinaio di metri indietro le compagnie e ne
informai il comando di reggimento. Il battaglione aveva già molti
morti. Le barelle erano insufficienti a trasportare i feriti ai posti di
medicazione.
Mentre
io fecevo la spoletta fra i reparti, passò un colonnello d'artiglieria,
seguito da due tenenti. A capo scoperto, la pistola in mano, fra gli
scoppi delle granate, urlava:
- Uccideteci! uccideteci!
Io gli andai incontro e gli proposi di servirsi dei miei ufficiali per
comunicare alle batterie l'ordine di spostare i tiri. Egli non riconobbe
neppure che io ero un ufficiale. Non mi rispose e continuò a gridare
frasi sconnesse. I due tenenti lo seguivano, muti, lo sguardo sperduto.
Io cominciavo a perdere la calma. Il comando di brigata, per l'azione,
s'era stabilito vicino, dietro il mio battaglione. Vi andai di corsa.
Trovai il generale comandante della brigata, in fondo a una piccola
caverna, seduto, con il microfono in mano. Gli raccontai affrettatamente
quanto avveniva. Egli
m'ascoltava, calmo fino all'abbattimento. Io parlavo agitato, ma egli
restava indifferente. Nell'eccitazione, io mi lasciai sfuggire:
- Signor generale, quante corbellerie, oggi, stiamo commettendo!
Il generale s'alzò di scatto. Io credetti volesse mettermi alla porta.
Mi venne incontro e m'abbracciò, piangendo. - Figliolo, è la nostra
professione, - mi rispose.
Seppi
che egli inviava portaordini e fonogrammi, vanamente, da oltre un'ora.
Io rientrai al battaglione, disperato. Nel settore del 2°
battaglione avvenivano cose peggiori. Il maggiore Melchiorri s'era
installato in una piccola caverna, accanto alla grande caverna in cui
era ricoverata la 5° compagnia.
Il tiro dell'artiglieria lo aveva molto impressionato.
Coloniale, egli non aveva mai assistito, in Africa, ad una simile forma
di guerra. I suoi nervi non poterono resistere. Si era già bevuto, da
solo, una bottiglia di cognac e aveva mandato in giro tutto il comando
del battaglione per trovarne una seconda. Egli attendeva la bottiglia,
quando, dalla caverna della 5° compagnia,
arrivò il rumore d'un tumulto.
La
caverna della 5° era, fra
tutte le altre del reggimento, la peggio scavata. Era stata una delle
prime ad essere costruita e i minatori non erano ancora sufficientemente
pratici. Era lunga orizzontalmente, ma non abbastanza scavata in
profondità. Poteva contenere un'intera compagnia, ma era quasi a fior
di terra. In grado di resistere a un bombardamento di piccoli calibri,
non lo era per gli altri calibri. Forse, lo era anche per gli altri, ma
quelli che vi stavano dentro avevano l'impressione che non lo fosse.
Quella mattina, i nostri 149 e 152 l'avevano
particolarmente presa di mira. Alcune granate scoppiate all'imboccatura
avevano ucciso dei soldati e il capitano comandante della compagnia.
Intere batterie avevano continuato a tempestarla di colpi. La compagnia
infine, stordita da un martellamento ininterrotto, soffocata dal fumo
degli scoppi, priva del suo comandante, non seppe resistere. Ai soldati
sembrava che la volta dovesse crollare da un momento all'altro e
schiacciarli tutti. Essi volevano uscire all'aperto. I soldati
gridavano:
- Fuori! Fuori!
Il maggiore Melchiorri sentí le grida e mandò ad informarsi. Quando
seppe che i soldati volevano uscire dalla galleria, egli fu assalito da
un impeto d'ira. Gli ordini dati esigevano che i reparti non si
muovessero dai posti loro assegnati prima dell'ora fissata per
l'assalto.
- Noi siamo di fronte al nemico, - gridò il maggiore, - ed io ordino
che nessuno si muova. Guai a chi si muove!
La seconda bottiglia era arrivata e il maggiore dimenticò la 5°
compagnia. Il bombardamento continuava. Non passò molto tempo. La
compagnia si gettò fuori dalla galleria e si riordinò, all'aperto, in
un avvallamento laterale non battuto dall'artiglieria.
Il maggiore credette trovarsi di fronte ad un ammutinamento. Ne era
convinto. Una compagnia, poco prima dell'assalto, con le armi alla mano,
a pochi metri dal nemico, rifiutava d'obbedire. Per lui, non v'erano
dubbi. Bisognava quindi reagire immediatamente con i mezzi piú energici
e punire la sedizione. Furibondo, usci dalla sua caverna. Mise la
compagnia in riga e ordinò la decimazione.
La 5° compagnia ubbidiva agli ordini, senza reagire. Mentre l'aiutante
maggiore conteggiava i soldati e ne designava uno ogni dieci per la
fucilazione immediata, la notizia si sparse per gli altri reparti del
battaglione e accorsero vari ufficiali. Il maggiore spiegò loro che
egli intendeva valersi della circolare del comando supremo sulla pena
capitale con procedimento eccezionale. Il comandante della 6° compagnia
era fra i presenti. Era il vecchio comandante della 6° all'azione
dell'agosto, il tenente Fiorelli, che, guarito dalle ferite e promosso
capitano, aveva ripreso il comando della sua compagnia. Egli fece
osservare che il reato di ammutinamento di fronte al nemico non esisteva
e che, anche se il reato fosse stato compiuto, il maggiore non avrebbe
avuto il diritto di ordinare la decimazione senza il parere del
comandante del reggimento.
Le considerazioni del capitano irritarono il maggiore. Egli impugnò la
pistola e gliela puntò al petto.
- Lei taccia, - gli rispose il maggiore, - taccia, altrimenti si rende
complice dell'ammutinamento e responsabile dello stesso reato. Io solo,
qui, sono il comandante responsabile. Io sono, di fronte al nemico,
arbitro della vita e della morte dei soldati posti sotto il mio comando,
se infrangono la disciplina di guerra.
Il capitano rimase impassibile. Calmo, chiese piú volte il permesso di
parlare. Il maggiore gl'impose il silenzio. La selezione era stata
ultimata, in mezzo alla 5°, e
venti soldati, distaccati dagli altri, attendevano.
Il maggiore ordinò l'attenti ed egli stesso si mise nella posizione
d'attenti. Il fragore dell'artiglieria era assordante e dovette urlare
per farsi sentire da tutti. Egli parlava solenne:
- In nome di Sua Maestà il Re, comandante supremo dell'esercito, io
maggiore Melchiorri cavalier Ruggero, comandante titolare del 2°battaglione
399° fanteria, mi valgo delle disposizioni eccezionali di Sua
Eccellenza il generale Cadorna, suo capo di stato maggiore, e ordino la
fucilazione dei militari della 5a compagnia,
colpevoli di ammutinamento con le armi di fronte al nemico.
Il maggiore era ormai esaltato e non ascoltava che se stesso. Ma lo
stato d'animo in cui egli si trovava non era quello degli ufficiali
presenti, né della 5° compagnia,
né dei venti designati alla morte. Mai, nella nostra brigata, era stata
eseguita una fucilazione. Questa decimazione appariva un avvenimento cosí
precipitato e straordinario da non essere neppure considerato possibile.
Ma non è necessario che tutti credano al dramma perché questo si
svolga. Il maggiore Melchiorri si trovava al centro del dramma,
protagonista già travolto.
Il maggiore ordinò che il capitano Fiorelli, con un plotone della sua
compagnia, prendesse il comando del plotone d'esecuzione.
- Io sono, - rispose il capitano, - comandante titolare di compagnia, e
non posso comandare un plotone.
- Lei dunque si rifiuta di eseguire il mio ordine? - chiese il maggiore.
- Io non mi rifiuto di eseguire un ordine. Faccio solo presente che io
sono capitano e non tenente, comandante di compagnia, non di plotone.
- Insomma, - gridò il maggiore, puntando nuovamente la pistola sul
capitano, - lei eseguisce o non eseguisce l'ordine che io le ho dato?
Il capitano rispose:
- Signor no. -
- Non lo eseguisce?
- Signor no.
Il maggiore ebbe un attimo d'esitazione e non sparò sul capitano.
- Ebbene, - riprese il maggiore, - ordini che un plotone della sua
compagnia passi in riga.
Il capitano ripeté l'ordine al sottotenente comandante il 1° plotone
della 6°. In pochi minuti, il plotone uscí dalla caverna e passò in
riga. Il sottotenente ricevette dal maggiore, e lo ripeté ai suoi
soldati, l'ordine di caricare le armi. Il plotone aveva già i fucili
carichi. Di fronte, immobili, stupiti, i venti guardavano.
Il
maggiore ordinò di puntare. - Punt! - ordinò il tenente.
Il
plotone si mise in posizione di punt. - Ordini il fuoco, - gridò il
maggiore. - Fuoco! - ordinò il tenente.
Il plotone eseguí l'ordine. Ma sparò alto. La scarica dei fucili era
passata tanto alta, al disopra della testa dei condannati, che questi
rimasero al loro posto, impassibili.
Se vi fosse stato un concerto fra il plotone e i venti, questi si
sarebbero potuti gettare a terra e fingere d'essere morti. Ma, fra di
loro, non v'era stato che uno scambio di sguardi.
Dopo la scarica, uno dei venti sorrise. L'ira del maggiore esplose
irreparabile. Con la pistola in pugno, fece qualche passo verso i
condannati, il viso stravolto. Si fermò al centro e gridò:
- Ebbene, io stesso punisco i ribelli!
Egli ebbe il tempo di sparare tre colpi. Al primo, un soldato colpito
alla testa stramazzò al suolo; al secondo e al terzo, caddero altri due
soldati, colpiti al petto.
Il
capitano Fiorelli aveva estratto la pistola: - Signor maggiore, lei è
pazzo.
Il plotone d'esecuzione, senza un ordine, puntò sul maggiore e fece
fuoco. Il maggiore si rovesciò, crivellato di colpi.
Mancavano pochi minuti all'assalto. Anche i 149 e i 152
avevano allungato il tiro e
non sparavano piú su di noi. Le nostre trincee erano state sconvolte.
Delle vedette lasciatevi, non fu trovata che qualcuna ancora in vita.
Ma, nelle trincee e nei reticolati nemici, immense brecce aprivano il
passaggio all'assalto. Il mio battaglione s'era ammassato in trincea. Io
vidi la 5° e la 6° compagnia, seguite dalla 7° e
dalla 8°, scavalcare
le nostre trincee in massa, ed arrivare alle trincee nemiche. Anche il
mio battaglione uscí immediatamente dopo, piú a destra. Il 1°
battaglione e un battaglione
dell'altro reggimento della brigata avevano anch'essi occupato le
posizioni nemiche, piene di morti.
Furono
questi quattro i soli battaglioni che, da Val d'Assa a Cima Caldiera,
riuscirono nell'assalto. Nel resto del fronte l'azione fallí. La mina
di quota 1496, all'estrema sinistra della divisione, si era rovesciata
sui nostri, rendendo inaccessibili le posizioni nemiche. Le nostre
perdite furono grandi. Io avevo iniziato l'azione come comandante di
compagnia e l'avevo finita comandante di due battaglioni: il 3° e il 1°,
rimasti senza capitani.
L'azione non essendo riuscita che nel nostro settore, la nostra
posizione avanzata, battuta di fianco dal tiro nemico, diventava
insostenibile. Al cader della notte, ricevemmo l'ordine di ripiegare
sulle trincee di partenza.
La notte, il capitano Fiorelli venne da me. Egli era abbattuto. Mi
raccontò la morte del maggiore Melchiorri della quale anch'egli si
credeva in parte responsabile. Mi disse che aveva fatto di tutto per
morire in combattimento. La sorte lo aveva voluto risparmiare. Egli
quindi si considerava obbligato a fare il suo dovere e denunziare il
fatto al comando di reggimento. Io non riuscii a dissuaderlo. Il giorno
dopo, con un rapporto scritto, denunziò se stesso. I comandi di
brigata, di divisione e di corpo d'armata ne furono informati
immediatamente. Egli, il tenente aiutante maggiore del 2° battaglione e
il sottotenente della 6° furono deferiti al Tribunale militare e messi
in stato d'arresto. I tre ufficiali, accompagnati da un capitano dei
carabinieri e da una scorta, passarono in mezzo al mio battaglione. Al
loro passaggio, i soldati si levarono, sull'attenti, e salutarono.
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