1. Pietro Balsamo
      (nato
      a Margarita, classe 1894, contadino) 
       
      Io nel 1915 avevo vent'anni, ero in fanteria, 52° reggimento, Brigata
      Garibaldi (..), sono stato al Col di Lana, Valle San Pellegrino, Val
      Cordevole, le Tofane, sul fronte della 4° armata. Poi di lì abbiamo
      fatto la ritirata di Caporetto, siamo venuti al Piave, Monte Pallone,
      Monte Pertiga, Monte Grappa. Poi il 17 aprile ci hanno presi e portati
      diretti a Bligny, a Verdun, perchè eravamo in subbuglio, c'era ribellione
      tra noi, non volevamo più saperne della guerra. 
      Che cosa mi è passato per la testa quando era scoppiata la guerra del
      '15? Eravamo innocenti totali, non sapevamo perchè facevamo quella
      guerra, capivamo proprio niente. Ne parlavamo solo tra noi, tutta gente
      che non avevamo scuole, che non leggevamo i giornali ...Io a scuola avevo
      imparato l'alfabeto
      e a coltivare i rapanelli e il prezzemolo, ho ancora quel libro sul quale
      abbiamo studiato sei tra fratelli e sorelle, ecco è questo il libro, il
      terzo che l'ha adoperato sono io, l'avevano fatto rilegare per me. Eh, la
      guerra! sì, ce n'erano di imboscati, tanti. Chi faceva il bandito, chi
      scappava in Francia. C'erano di quelli che si rovinavano la salute per non
      andare in guerra: prednevano il decotto di tabacco, si mettevano delle
      cose strane nelle orecchie. Ho dei compagni che si sono ammazzati al
      fronte, quando le cose erano serie.
      (pag.
      8) 
      2.
      Giacomo
      Martinengo (nato a Margarita, classe 1884, contadino) 
       
      Poi è scoppiata la guerra. Ero già sposato, avevo tre figli. La guerra
      per noi è stata un disastro, e per la campagna ha significato farsi un
      po' di soldi. La gente di camapgna, nel 1915, ha capito che il prezzo
      delle bestie incominciava ad aumentare e il prezzo delle painte anche.
      Ecco, i proprietari di terra hanno capito questo, ed erano quasi contenti
      della guerra. Ma poi hanno capito che dovevano mandare i figli in
      guerra... 
      Un mio fratello si è tolto i denti, altri pochi di Margarita si sono
      fatti togliere i denti, li avevano già gusti! Uno di Fossano si è
      avvelenato con il piombo, è morto. Un altro, era meridionale, si è fatto
      fare un'iniezione di petrolio, è diventato tutto storto, è finito in
      galera. 
      Mi hanno richiamato nel 1916 e messo in fanteria. dopo tre mesi che ero in
      trincea sono rimasto ferito al collo, una pallottola m'ha bucato da parte
      a parte. Eh, quella guerra... Avessi avuto la forza li ammazzavo tutti io
      gli italiani, tutti, non ci davano nemmeno da mangiare in trincea. Sul
      colle Briccon, vicino a Trento, abbiamo fatta tanta di quela fame,
      arrivava più niente, nemmeno i sigari e le sigarette. Che cosa dicevano i
      miei amici contadini in trincea? Chi scriveva a casa di fare dire messe,
      chi pregava, ognuno aveva 'l so trigu (il suo metodo come scaramanzia)
      . Io bestemmiavo. Non era mica una guerra ..., niente vestiti, scalzi, i
      piedi gonfi, pien'd pioi (pieni di pidocchi) , niente acqua da
      bere, il mangiare una volta al giorno quando arrivava, quando
      l'artiglieria non sbatteva giù i muli. Non si poteva alzare la testa se
      no gli altri sparavano, tapun tapun, era dificile salvare la pelle. 
      (pag. 16-17) 
      3.
      Giovanni
      Toselli (nato a Peveragno, classe 1887, muratore) 
       
      Poi scoppia la guerra, che disperazione! Che cosa mi è passato per la
      testa? Ma nemmeno un soldato era convinto di fare quella guerra, partivamo
      tutti malvolentieri. 
      uno da sposare è diverso ... ha nessuno dietro. Noi avevamo famiglia,
      dovevamo lasciare il lavoro. Solo qualcuno volontario voleva fare la
      guerra, per fare carriera. Noi siamo andati in guerra per forza. Tanti qui
      di Peveragno prendevano porcherie per non partire, e ne sono morti... 
      Partito il 31 luglio 1915, e tornato nel dicembre del '18. Sono stato
      nella conca di Plezzo, con la brigata Aosta, siamo andati a occupare
      Plezzo con la fanteria, noi alpini a far coraggio alla fanteria. Su a
      Plezzo eravamo su una posizione avanzata che ci prendevano da tutte le
      parti, quota 900, dall'alto ci buttavano giù le pietre, da una parte
      sparavano col cannone a zero, e dall'altra ancora con le mitraglie. Non ci
      arrivava più da mangiare, e sono venuto a pesare 45 chili. Anche un certo
      Salimbeni di Pradleves, che pesava 86 chili, è venuto a trentasei chili.
      C'era un certo bosniaco, un volontario, che viveva in una galleria nella
      roccia da solo, e aveva cinque fucili e una mitraglia, e chiudeva sempre
      il passaggio alle nostre corvèes di viveri. Allora il capitano mi ha
      mandato a prendere quel merlo, mi ha dato diciotto uomini, ci siamo tolte
      le scarpe, ci siamo fasciati i piedi nelle fasce mollettiere, abbiamo
      montato un trucco e l'abbiamo sorpreso. Era un giovane, aveva per due mesi
      viveri e munizioni. Uno l'ha preso per i piedi e l'altro per le braccia,
      l'abbiamo buttato giù da un burrone, a momenti ammazza il nostro capitano
      sotto, a momenti gli piomba addosso. 
      Poi è venuta la ritirata, la nostra divisione ha resistito due giorni
      nella conca di Plezzo, i nostri 149 prolungati sparavano già verso le
      retrovie, all'indietro, allora si salvi chi può, siamo scappati, nella
      nostra vallata c'erano due metri di morti... 
      Eh, l'abbiamo vinta quella guerra, ma l'abbiamo anche perduta. La
      statistica dice che sono di più i tubercolotici tornati dalla guerra del
      '15-'18 che i morti di quella guerra. Io ho preso il gas iprite sul Montello, e come sono tornato a casa, dopo il primo giorno di festa, ero
      già malato di polmonite, ho tribolato due anno. E mi è toccato
      ricominciare dal principio e vivere su due giornate e mezzo di terra e il
      resto in affitto perchè non trovavo lavoro come muratore, nessuno faceva
      ancora costruire. 
      (pag.30-31) 
      4. Giuseppe
      Daniele, nato a Cherasco, classe 1887, contadino 
       
      Ma poi è venuta la guerra, io ero di terza categoria come capofamiglia.
      Hanno perduto '1 Ludin, una montagna, forse era del 1916, allora ci hanno
      richiamati anche noi di terza e siamo andati a riprendere quella montagna,
      'l Ludin. Poi al Crestarossa, altra montagna del Veneto, altra battaglia.
      Poi l'Ortigara, nel Trentino,  ah matot...', non so come sono riuscito a
      togliermela, a mucchi i morti, hanno cominciato a salire in mattinata da
      Bassano i tedeschi e ci hanno preso su un fianco, ne hanno fatto una
      strage. 
      Che cosa pensavamo noi di quella guerra? Non avevamo nessuna voglia di
      farla, per forza andare. A noi non interessava la guerra, noi eravamo
      poveri diavoli, a noi non conveniva. Interessava a qualcuno per farsi i
      soldi, ma non a noi. « Andiamo là a perdere tempo e ancora a farci
      ammazzare», ecco che cosa ci dicevamo. 
      E’ sull'Ortigara che ho visto la guerra piú brutta. Là i colpi di
      mortaio cadevano e facevano tremare la terra. Una notte siamo usciti dalla
      trincea, ero con la 15° compagnia del battaglione Borgo San Dalmazzo.
      Abbiamo raggiunto una valletta che era piena di morti. Abbiamo costruito
      una lunga morena con i morti, abbiamo tolto i morti e ci siamo ammucchiati
      al loro posto. Poi al mattino, alle sette, arriva l'ordine di partire
      all'assalto. «Fuori», grida il capitano. «Prima esce lei, poi usciamo
      noi», gli dicono i soldati. Le mitraglie dei tedeschi sparavano a gran
      forza raso terra. Esce il capitano, esce la prima ondata di alpini, e
      muoiono tutti. Io ho tardato un attimo: «Se ho da morire muoio qui», mi
      sono detto. Poi la nostra artiglieria ha cominciato a bombardarci, e anche
      i tedeschi hanno preso a bombardarci. I nostri ci bombardavano per farci
      uscire dalla trincea, per spingerci all'assalto. Neh che guerra falsa! In
      quel batibói (scompiglio) ne sono morti migliaia e migliaia. Mah! Quante
      volte mi sono nascosto sotto i morti per ripararmi dalle schegge degli
      shrapnel! 
      Com'erano i nostri ufficiali? Ce n'erano dei buoni e dei cattivi. I
      cattivi ogni tanto li trasferivano di reparto perché se no i soldati li
      ammazzavano. Il soldato stava sempre zitto, ma l'ufficiale cattivo aveva
      paura di essere ammazzato. Non ci siamo mai ribellati, non eravamo mica
      capaci di ribellarci. Non avevamo nemmeno piú fame in trincea, tanta era
      la paura, tante erano le sofferenze. Avevamo sempre tanta sete. Oh, dell'Ortigara
      mi ricordo sempre. 
      Poi una volta sono andato avanti con trenta esploratori, c'era stato un
      combattimento e ne avevo visti a cadere tanti, a cadere giú come le
      mosche. Siamo finiti in una buca, gli austriaci ci hanno accerchiati,
      allora abbiamo alzato un fazzoletto, siamo caduti prigionieri. Anche gli
      altri della mia compagnia sono caduti prigionieri. 
      1 primi giorni siamo vissuti con un mestolo di brodaglia. Poi in treno ci
      hanno portati in Ungheria. Rape alla mattina e alla sera, nient'altro. Piú
      niente pancia avevamo, ne sono morti tanti dei nostri, tutte le mattine
      erano trenta o cinquanta i nostri morti: tanti morivano senza male, come
      un pollastrino quando ha la malattia. Facevamo cuocere le bucce delle
      patate, delle rape. Io vivevo a cicoria. Mi dicevo: «Cosí non posso piú
      andare avanti». 
      Un giorno arriva l'ordine: «Chi vuole andare in Galizia? Occorrono
      sessanta uomini a lavorare in una fattoria di millecinquecento giornate».
      Allora mi sono trascinato in fila. L'indomani siamo saliti sul treno, un
      giorno e una notte, siamo arrivati a Leopoli, vicino alla Russia. Lí sono
      andato un'altra volta a chiedere la carità, l'avevo chiesta da piccolo la
      carità e l'ho chiesta da alto, andavo a bussare alle porte delle case, mi
      dicevano: «Ceta, ceta, aspetta, aspetta», mi davano una fetta di pane
      nero o una patata. 
      Una volta ho imbattuto in una casa dove c'era un medico, mi ha dato una
      bella pagnotta di pane bianco, mi ricordo, l'ho baciata quella pagnotta
      prima di mangiarla. Mi dicevo: «Oh, 'sta volta mi riprendo un po ». L'ho
      mangiata, non mi ha nemmeno toccato le budella tanto ero vuoto. « Se
      veniste in due a segare la nostra legna ... » mi ha detto il medico. « Sí
      sí, io chiamo un mio compagno». Alla sera siamo andati là a segare la
      legna, un'ora e mezza, e finito il lavoro ci ha dato una buona minestra di
      orzo. E dopo la minestra una bella e buona polenta. Noi mangiavamo tutto.
      Allora ci ha fatto preparare ancora una purea di patate. Iste, non
      riuscivamo piú a tirare il fiato. Cristolu, avremmo mangiato fino a
      scoppiare. 
      L'indomani siamo andati a lavorare per la prima volta alla fattoria. Là
      c'erano delle pentole di patate bollite, e noi giú a mangiare. Un mio
      amico aveva già la pancia gonfia, e io a dirgli: «Stai attento che crepi».
      E’ rimasto lí con una patata in bocca, morto, si sono strappate le
      budella, le nostre budella erano fini, sottili, patite. 
      Nella fattoria piano piano mi sono ripreso con le forze, ero contento, mi
      sentivo rivivere. Poi è finita la guerra e il padrone della fattoria
      voleva che restassimo là: «No io non ci sto in questi paesi, a mangiare
      patate e cavoli». Ah, era brava gente, contadini, bravi sicuro. Mi
      ricordo sempre, una volta ero seduto lungo una strada e mangiavo una
      patata, è passata una donna, mi ha guardato, e si èmessa a piangere. Eh,
      era piú duro fare della fame che fare la guerra! Tra i prigionieri i piú
      smilzi resistevano, ma i piú grossi si sgonfiavano e morivano tutti. 
      Quando sono tornato a casa ho trovato la solita miseria: ero pulito, a
      zero. Gli altri si erano fatti i soldi e noi a zero. Mia madre ormai era
      sola, era vissuta di stenti, aveva tirato avanti con il mio piccolo
      sussidio, l'avevano truffata col sussidio. La «Combattenti» era
      d'accordo con il Distretto, avevano rubato cinquanta lire a mia madre, a
      ogni madre di soldato avevano rubato cinquanta lire, l'ho proprio
      constatato io quando sono tornato dalla guerra, e le ho pretese quelle
      cinquanta lire. Cbe fregun... . 
      Ho subito ripreso a fare il manovale nelle cascine a una lira al giorno.
      All'estate andavo col ferro a tagliare il grano, le giornate erano lunghe,
      due lire al giorno, con due lire si comprava giusto una camicia. Lavorando
      guadagnavo i soldi per comprare la crusca per i maiali, e mantenevo mia
      madre. Poi sono riuscito a comprare una vacca, poi un'altra, ho affittato
      un po' di terra, cudíu la lervaia (rispettavo la briciola). Nel
      1924 mi sono sposato e ho avuto quattro figli.
       
      (pag. 38-41)
       
      5. Giovanni
      Allinio, San Michele di Cervasca, classe 1895, contadino 
       
      A contarla in fretta sono andato da permanente nel 21° artiglieria da
      campagna, con Michel 'd Cicu, Vincens 'd Magnet, Bepi e altri. Mio
      fratello Trumlin era in America del nord, San Francisco di California, io
      ero di terza categoria. Ventidue giorni a Piacenza, poi mi trasferiscono
      al 63' fanteria a Salerno. Là divento l'attendente del maggiore
      comandante. Ma un brutto giorno mi fanno la visita medica, mi vestono
      subito per il fronte. lo sto piangendo quando arriva il maggiore: «Cosa
      hai combinato? - mi dice, - ti avevo detto che in mia assenza non dovevi
      lasciarti comandare da nessuno, non dovevi passare la visita medica.
      Adesso non posso piú fermarti, devi andare al fronte». Però il maggiore
      mi insegna bene: « Metti i sigari in un bicchiere d'acqua, fatti furbo,
      fatti venire il cardiopalma ». 
      Raggiungo Monfalcone, poi il Monte Sei Busi, un affare, quanti morti...,
      la terra della trincea era rossa come le tegole, argillosa, avevamo sempre
      la faccia sporca. Vado due volte all'assalto, uno spavento cosí... Gli
      austriaci erano a pochi metri. L'aiutante maggiore ci dice: «Coraggio,
      che all'una si va all'assalto. C'è il caffè e poi c'è l'assalto». Ma
      Dio Signore, dopo la prima golata il caffè non va piú giú, sentiamo già
      bum, è l'Italia che apre il fuoco, il Monte Sei Busi che diventa una
      grande fiammata. I tedeschi urlano: «Urrà, urrà». Buttano i razzi e si
      vede un ago per terra. Noi stesi fuori della trincea facciamo i morti. Poi
      il razzo si spegne e avanziamo di due metri. I reticolati mi imprigionano
      la giacca, ho le mani che sanguinano come una capra. Questa è la guerra
      della fanteria! Eh, era tremendo andare all'assalto; « Siamo già tutti
      morti», ecco cosa pensavamo in quei momenti. Piangevamo. Solo i piú
      anziani, come Maté 'dla Bibia, non si disperavano tanto, loro erano già
      piú stagionati, piú scaltri. A noi il cuore saltava. 
      Allora ho incominciato a chiedere visita, mangiavo un sigaro e bevevo un
      bicchiere d'acqua. E’ cosí che ho ottenuto sei mesi di convalescenza.
      (..) Ma dopo un mese e mezzo che ero a casa sono venuti i carabinieri a
      cercarmi, ho dovuto raggiungere Salerno. Là il mio maggiore mi ha di
      nuovo voluto come attendente, mi ha fatto dichiarare inabile al servizio
      al fronte. Accompagnavo i suoi due bambini a spasso, tenevo la casa
      pulita, servivo sua moglie.
       
      (pag. 101-02)
       
      6. Bartolomeo
      Ristorto, San Michele di Cervasca, classe 1893, contadino 
       
      Quando ho avuto diciotto anni ho pensato di andare nei carabinieri. Mio
      padre mi ha detto: «Ah, è mica il tuo mestiere». Allora ho pensato di
      andare in America, e mio padre: «Va', ma io i soldi non te li do».
      Sempre lavorando di qua e di là è arrivato il tempo che sono partito da
      soldato, era il 10 settembre del I9I3- Mio fratello era già sotto, era
      caporalmaggiore degli alpini in Tripolitania. Mi hanno messo nei
      granatieri a Roma. [... I. 
      Il I7 maggio del 1915 sono arrivato a Palmanova, sempre con il 1°
      Granatieri. Era già da un po' che predicavano la guerra. A noi ci
      sembrava di andare a nozze, noi non ,sapevamo che cosa era la guerra.
      [...I. Poi dalle parti di Cividale viene a passarci in rivista D'Annunzio,
      un poeta. 
      Dall'altra parte del fiume, proprio di fronte a noi, c'era una garitta con
      gli austriaci della dogana. Il mattino del 24 maggio arriva un capitano
      tutto armato e ci dice: «Ragazzi, da stassera a mezzanotte la guerra
      incomincia. Sentirete un colpo da 305 sparato da Palmanova, è il segnale
      della guerra». Allora io grido agli austriaci della dogana: «Cosa fate lí?
      Aspettate che vi facciamo prigionieri?» E loro mi rispondono: « Dove
      vuoi che andiamo? Se abbandoniamo il posto ci arrestano». (..) . 
      Poi siamo arrivati a Monfalcone, tutte le luci erano ancora accese, gli
      austriaci non credevano che noi arrivassimo presto cosí. L'indomani
      mattina, con il mio comandante di battaglione, Manfredi, siamo andati a
      occupare una collina. Ma la nostra artiglieria si è messa a sparare con i
      149, non ho poi mai piú visto la nostra artiglieria a sparare bene cosí,
      ne ha ammazzato un bel numero dei nostri! E come se non bastasse, il
      comandante dell'artiglieria è poi venuto ad aggredire il nostro
      comandante di battaglione, a fargli la colpa di non averlo avvertito della
      nostra avanzata. Allora il mio comandante di battaglione ha tirato fuori
      la pistola e voleva ucciderlo, e anche il comandante dell'artiglieria ha
      impugnato la pistola e voleva uccidere il mio comandante di battaglione! 
      Dopo sei mesi siamo saliti sul Sei Busi. Lí sono andato diverse volte
      all'assalto. (..). Poi sono caduto prigioniero ad Asiago, perché gli
      ufficiali del Sabotino ci hanno tradito. (..) Appena dopo la cattura
      incontro un caporalmaggiore di Trento, vestito da austriaco, che mi chiede
      in regalo una delle mie stellette. Mi dice: «Non voglio sapere che cosa
      fai a casa di professione, ma ascolta me. Dichiara che fai il contadino,
      anche se sei un maestro. Se non vai a lavorare in campagna ti spetta la
      fame. In campagna invece una patata o un uovo riuscirai sempre a
      rimediarlo». Era il 31 maggio del 1916. 
      Alla sera ci chiudono in un forte. L'indomani riprendiamo il cammino, la
      gente di Trento ci sfotte, ci grida: « Italiani avanzate, state occupando
      Trento ». Poi c'è un bel paese, un posto di villeggiatura. Lí un
      generale tedesco con il chiodo ci parla in italiano, ci dice: «Italiani,
      la guerra pér voi è finita. Fate il vostro dovere da prigionieri come lo
      facevate in tempo di pace». 
      In un campo di concentramento vicino a Vienna restiamo fermi quaranta
      giorni. Poi con due russi e dodici italiani mi trasferiscono in un paese
      poco lontano. Una fame, parlavamo solo di mangiare. Lí nel nuovo paese
      arrivano i padroni con il sindaco, e ogni padrone deve scegliere un
      prigioniero. Il padrone che mi sceglie è un vedovo con tre figlie, la piú
      vecchia delle figlie è gobba. Ho appena raggiunto la sua casa che ci
      sediamo tutti attorno al tavolo, io non capisco una parola, loro parlano
      ed è come se balbettassero. Poi una delle ragazze sparisce, e ritorna con
      tre uova sbattute e un pezzo di pane, oh cristu! Appresso un bel bicchiere
      di vino. Poi mi dice: «Tu nicht rauch? » ma io non capisco. Allora si
      mette un dito in bocca, sparisce di nuovo, e ritorna con un pacchetto da
      cento sigarette. 
      Dopo cinque mesi incomincio a capirli già nel parlare. Come la Russia ha
      fatto quel bataclan (sconvolgimento), quando in Russia c'è stata la
      rivoluzione, gli austriaci hanno preso le truppe dal fronte russo e le
      hanno mandate sul fronte italiano. Allora arriva una lettera al mio
      padrone, che se mi lascia libero mandano a casa suo figlio. lo sono deciso
      a scappare per la campagna, ma il mio padrone mi dice: «No, no, non
      finirai in un campo di concentramento, non avere paura. lo so già chi ti
      prende». Alla sera arriva uno, un consigliere del paese, un uomo di
      settantadue anni che ha cinque figli sotto le armi. Sua moglie tiene il
      letto da molti anni. Ha una figlia del mio tempo. Vado con lui, è un
      brav'uomo, mi paga tre corone al giorno, e poi mi regala altri soldi di
      premio. Io lo dico, gente brava come questa io non l'ho mai piú trovata.
      Il mio nuovo padrone si chiama Vosna Leopold, e sua figlia.Anna. (..). 
      Il 3 novembre 1918, con un carro carico di fieno, sto andando verso
      Vienna. Un soldato che porta a spalle un sacco di patate mi chiede di
      poter salire sul carro. Mi dice « Krieg fertig, la guerra è finita». 
      A Vienna dormo come al solito nell'osteria. Sento a dire che gli italiani
      sono già.a Gratz. L'indomani mattina vado a scaricare il fieno e poi
      prendo la strada del ritorno. Il fiume che attraversa Vienna è il
      Danubio. C'è un ponte, c'è la ferrovia, e poi una grossa caserma. Sento
      che i soldati austriaci stanno rompendo tutti i vetri della caserma. Poi
      vedo un soldato austriaco che arriva sulla piazzetta, tiene un maggiore
      per il collo, il maggiore sanguina dal viso. «Oh cristu, - mi dico, -
      'sta volta ci siamo». «Plasmi steno, plasmi steno, - mi grida il
      soldato, - fermati, fermati». Io ho i due cavalli che tirano, stento a
      fermarli. Quel soldato mi porge un fucile, mi dice: «Signori tutti kaput.
      Ci hanno fatto fare la guerra. Noi eravamo amici e ci hanno mandati al
      massacro. Li ammazziamo tutti i signori ». Vuole che io prenda il fucile,
      vuole che mi unisca ai ribelli per fare la rivoluzione. Ma io scappo via,
      li faccio di corsa i diciassette chilometri che mi separano dal paese. 
      Come arrivo al paese incomincio a gridare: «Fioi (ragazzi), c'è la pace.
      E’ finita la guerra, non togliete piú le patate». Arriva il sindaco e
      ci dice: «Ragazzi, siete in piena libertà. Non abbiamo piú né esercito
      né niente. Ascoltate me. Nelle campagne tutti sparano, ammazzano di qua e
      di là. Restate ancora qui con i padroni per qualche giorno ». Il 10
      novembre è festa. Organizziamo un ballo con la gente. (..). Poi decidiamo
      di partire. Io sono già lungo la strada quando mi raggiunge Anna, che mi
      dice: «Volevo ancora salutarti, mia madre ti manda dodicimila corone per
      il viaggio ». 
      A Vienna saremo centomila i prigionieri liberi. La città è deserta, non
      si vede un solo borghese, tutte le persiane sono chiuse. [... I.
      Raggiungiamo Lubiana, e dopo venti giorni arriviamo a Trieste. 
      Il 24 dicembre torno a casa con quindici giorni di licenza. Dico a mio
      padre: « Vúghes? (vedi). Se andavo in America invece di passare questi
      anni sul Carso... E intanto mi sono salvato per grazia di Dio, e sono
      tornato a casa carico di pidocchi. Se andavo in America potevo avanzare un
      po' di soldi, non di pidocchi». 
      Finisce la licenza e devo raggiungere Fiume. La città è di nessuno, c'è
      D'Annunzio, ci sono i francesi, tutti vogliono Fiume. Lí siamo italiani
      contro italiani. Vede la politica com'è? Di sera facciamo le ronde, poi
      arriva il plebiscito. Allora il nostro colonnello Dina, un milanese, un
      brav'uomo, ci dice: «Domani mattina andrete a bloccare quella strada, non
      alzate le baionette, ma se non si fermano li picchiate nelle gambe».
      L'indomani arrivano dieci navi di italiani, di borghesi, che gridano: «Viva
      l'Italia». I soldati fiumani hanno un nastrino con su scritto « italiani
      o morte ». Quando la faccenda di Fiume finisce il colonnello Dina ci
      dice: « Io ho fatto tutta la guerra, sono rimasto ferito sul Sabotino.
      Per conto mio chi ha fatto la guerra siete voi, dal soldato al sergente».
      Ci regala cinquanta lire a ciascuno, ci dice: «Ricordatevi dei colonnello
      Dina». 
      A casa mi aspetta la solita vita.
       
      (pag. 11-118)
       
      7. Giuseppe
      Bruna, nato a Vignolo, classe 1898, contadino
       
      Avevo nemmeno diciotto anni
      non mi facevo ancora nemmeno la barba, e mi chiamano a fare il soldato
      negli alpini. Vado a finire a Ala di Trento, sul Monte Sugno, in guerra,
      di rincalzo. Eh, la guerra! Tra noi dicevamo: « Non andiamo mai piú a
      casa, la guerra non finirà mai piú, è la fine del mondo, che il diavolo
      si porti via tutto». Se potevamo avere un fiasco di vino in tre o
      quattro, «Sa, beviamo una volta», e cercavamo di dimenticare. Noialtri
      avevamo l'interesse della guerra? Gli ufficiali ci parlavano della patria.
      Noialtri quando potevamo avere la licenza e venire a casa la patria era
      quella lí. [..] 
      Poi è venuto l'armistizio, ero a Feltre con la 59' divisione, alle tre
      del pomeriggio è arrivato un portaordini con la bandiera bianca. Vicino a
      una chiesa c'era l'hotel, la mensa degli ufficiali tedeschi. Siamo saliti
      al secondo piano con le corde, abbiamo portato abbasso la pianola, poi due
      giorni di festa. Arrivavano i camion pieni di fiaschi di vino, nemmeno con
      la baionetta si riusciva a tenere indietro i soldati; «La guerra è
      finita», gridavamo, e ballavamo tra soldati, una gran festa, una festa
      come la nostra patronale. 
      Poi quaranta giorni a raccogliere nei campi le armi abbandonate, le
      munizioni, i cappelli di ferro, tutta la porcheria. Poi mi hanno spedito a
      Fiume contro D'Annunzio. D'Annunzio aveva conquistato Fiume con i suoi
      arditi e veniva da noi a rubare i cavalli e le artiglierie che noi
      dovevamo difendere, tre miei amici sono morti lí, contro D'Annunzio. La
      guerra era finita e D'Annunzio faceva il caporione, faceva come
      l’imperatore di Fiume. Tra noi dicevamo: «Ma cristu, la guerra è
      finita e quel rompiballe di D'Annunzio ci fa ancora sparare addosso».
       
      (pag. 119)
       
      8. Giovanni
      Battista Giraudo, Vignolo, classe 1893, contadino 
       
      (..) Lavoro quattro anni al cemento. Poi scoppia la guerra, i giornali che
      stampano a San Francisco «Il Popolo» e «L’Italia» dicono che noi
      italiani dobbiamo rimpatriare. Combiniamo in tre o quattro, il viaggio è
      pagato, ci diciamo: «Torniamo in Italia, sarà mica la fine del mondo».
      Ho diecimila lire di risparmi. 
      Nell'agosto del 1915 ci imbarchiamo, saremo tremila sul bastimento, siamo
      venuti quattrocentomila italiani dall'America a fare la guerra in Italia.
      Napoli è tutta imbandierata per il nostro arrivo. Il 4 settembre sono già
      arruolato a Genova nelle salmerie. Nel gennaio del 1916 sono già a Cívidale
      con il 1580 reggimento della brigata Liguria, poi sugli altipiani di
      Asiago, poi al Pasubio, poi sul Monte Corno. (..). Mah, eravamo carichi di
      pidocchi, mangiavamo un po' di risetta' con la torreggiana, una porcheria.
      Dovevamo fare il nostro dovere, se non andavamo avanti gli ufficiali ci
      sparavano. Infine il 4 novembre del 1918 la guerra finisce e torno libero.
      Ma a casa non c’è lavoro. Allora vado di nuovo in America.
      
       
      (pag. 126)
       
      9. Giovanni Caranta,
      nato a Desertetto di valdieri, classe 1896, contadino
       
      Se
      ho fatto la guerra del 'I5?  Eh,
      ne ho fatto io dei sacrifici per l'Italia! 
      Trenta mesi di linea. Mi
      hanno chiamato avevo diciannove anni. 
      Prima col 2° alpini, battaglione Argentera; poi al 6°
      alpini con il battaglione sciatori Monte Pasubio, e poi al Cividale dell'8°
      alpini. Cercavamo solo di salvarci.
      La prima volta che sono andato in linea era il 28 maggio del 1916,
      sul Trentino, sul Monte Fiore, c'era la ritirata mentre Asiago
      bruciava. Noi eravamo quattro
      battaglioni su una posizione in alto, loro sette divisioni, quattromila
      uomini contro sessantamila, li abbiamo tenuti. Del mio battaglione
      Argentera eravamo duecentoventisette fucili in linea, otto giorni dopo
      siamo andati a riposo in ventidue, il resto tutti morti e feriti. 
      Eh, in guerra ammazzano! 
      E l'Ortigara?  Volevano farci
      prendere quella montagna con centocinquanta uomini. 
      E allora avanti.  Era
      un'ora prima del giorno, «compagnie affiancate, poi plotoni, poi squadre
      sparpagliatevi e andate avanti». lo sono arrivato addosso a uno che ha
      fatto un grido, era un austriaco che aveva ancora piú paura di me, ho
      fatto 'n girabarachin' [Una giravolta (una capriola)], mi ha
      sparato ma non mi ha colpito. 
      E sul Monte Fiore? Abbiamo avuto un
      attacco serio, l'indomani c'era la nebbia, siamo poi usciti a contare gli
      austriaci morti, erano piú di trecento. In
      questo attacco ero vicino a un mio amico di Valdieri, Audisio.
      E' arrivato un colpo di artiglieria che mi ha coperto di terra. 
      Audisio mi ha dissotterrato, ero ferito alla testa, il sangue che
      colava. Sono andato all'infermeria e mi hanno messo 'n tacun' [Un
      rappezzo].  Nell'infermeria c'era il capitano Nasali Rocchia steso su una
      barella, e accanto il capitano Giordanengo di Roccavione che lo toccava,
      che gli diceva: «Oh, povero Nasali. Te
      l'avevo detto che non ci salvavamo piú qui». 
      Discorreva con Nasali morto! 
      L'indomani sera hanno portato anche il capitano Giordanengo morto, erano
      andati sette volte all'assalto alla baionetta sul Monte Fiore. C'era un caporalmaggiore di Carrú che gli dicevano Patríssio.
      Giordanengo gli fa: «Patrissio, salta fuori». «Capitano, che
      salti fuori lei, poi salto fuori io». 
      Il capitano esce e cade subito colpito. 
      Eh, la guerra era piú pericolosa per l'uflisialità, sí
      perché gli ufficiali erano piú
      controllati, tutti chiedevano: « Dov'è il tenente?» Il soldato poteva
      anche nascondersi due o tre giorni che nessuno lo cercava. 
      Uh, lí sul Monte Fiore sono rimasti trentotto ufficiali tra morti
      e feriti in due mesi che siamo stati nel Trentíno. 
      Che cosa pensavamo di quella guerra? 
      Pensavamo che la guerra era la rovina, le guerre non sono per il
      benessere ma per la distruzione.  Io
      sapevo già quasi come adesso. Ma
      il novantanove per cento dei contadini non sapeva, non capiva: il basso
      popolo era innocente al completo, non sapeva nemmeno da che parte leva il
      sole, senza istruzione e senza niente come fare... La bassa gente cercava
      solo di salvarsi la quello è un istinto. 
      (pag.
      172-73) 
      10.
      Giovanni Giraudo,
      nato a Valdieri, classe 1885, contadino
       
      Poi è venuta la guerra del
      '15. Io non volevo farla quella guerra. In
      America era una babilonia, non sapevano dove trovarci.
      C'erano i manifesti di chiamata ma ben pochi si presentavano.
      Si presentava qualche meridionale che voleva tornare a casa con il
      viaggio di ritorno pagato. Bisognava
      non avere bisogno di carte, di documenti dagli uffici, poi era quasi
      impossibile che ci trovassero.
      
      
       
      (pag. 184)
       
      11.
      Lorenzo Blua, nato a
      Desertetto di Valdieri, classe 1884, contadino
       
      Negli anni della guerra 19I5-18
      ero là. Non volevo farla quella
      guerra. Hanno fatto un censimento
      di tutti gli italiani, io il questionario l'ho compilato presso la mia mina
      [miniera], ho dichiarato che se l'Italia mi chiamava non avrei
      risposto, c'era troppo pericolo nella traversata, per l'acqua, per i
      bastimenti. Piuttosto parto sotto
      la bandiera degli Stati Uniti. Cosí
      ho ricevuto una cartolina verde, mi avevano assegnato alla seconda classe
      come volontario, e non alla quinta classe degli stranieri. Ma poi le mine hanno fatto ricorso dicendo che se partivano
      tutti i minatori il tonnellaggio del carbone sarebbe diminuito, e ci hanno
      esonerati.
       
      (pag.192)
       
      12.
      Giuseppe Bruno, nato
      a Chiotti di Valloriate, classe 1893, contadino
       
      Sono rimasto in Francia fino
      al 1913, quando sono partito da coscritto. Ho dovuto fare tutta la guerra del '15, con il 2°
      alpini, battaglione Borgo San Dalmazzo. Ho
      combattuto sul Monte Ludin, Monte Nero, Rombon, San Michele,
      Santa Maria, Santa Lucia, Smerle...[Merzli]. Nei giorni della ritirata di
      Caporetto sono caduto prigioniero a Cividale, ci hanno mandati a Linz,
      poi a Innsbruck, dove mangiavamo soltanto patate e barbabietole. Lavoravamo ad aggiustare la ferrovia. Settecento grammi di pane da dividere in
      sedici soldati, avevamo
      fabbricato delle bilance per fare le razioni. Di millecinquecento che eravamo ci siamo salvati quattrocento.
      [..] Poi la guerra è finita, sono tornato a piedi in lialia. A Piacenza ho preso il treno per Cuneo, poi ho raggiunto Valloriate. 
      A Valloriate incontro una donna che mi chiede di che borgata
      sono. «Sono di Chiotti », le dico. «Ne sono morti due stamattina di
      Chiotti, sono morti di spagnola». «E chi sono?» «Tita Ciot e sua
      figlia». Mi sono messo a
      piangere disperato, sono entrato nell'osteria a bere qualcosa... Poi mi
      sono incamminato verso casa. Mio padre aveva sessantadue anni e mia sorella ventidue, erano lí
      morti. Mia madre era a letto
      malata, anche mio fratello era a letto malato. 
      Soltanto la moglie di mio fratello era in piedi, con i tre bambini. Dopo due
      giorni anche mio fratello è morto. Mia cognata è tornata a
      casa  sua portandosi via i bambini.
      lo sono rimasto solo con  mia madre.
      
      
       
      
       
      (pag.195)
       
      13.
      Pietro Bruno, media Valle Stura, 1896, contadino
       
      Poi è venuta la guerra.
      Io ero negli alpini, battaglione Argentera. 
      Siamo partiti con la tradotta da Borgo San Dalmazzo, eravamo tutti
      brilli, gli ufficiali ci avevano offerto da bere.
      Scaricati a Cividale, abbiamo raggiunto a piedi Caporetto.
      Da Caporetto vedevamo che sul Monte Rosso era un fuoco solo, non
      capivamo come lassú potesse vivere della gente.
      Tra noi ci dicevamo: «Andiamo lassú, moriremo tutti». 
      Mah, la guerra è una brutta bestia! 
      Nel 1916, sul Monte Fiore, il capitano Giordanengo di Roccavione è stato
      un uomo. Il maggiore gli dice: «Tu
      prendi la compagnia, la 122, e la porti lassú ». Giordanengo gli
      risponde: «I miei uomini hanno tutti una mamma. Io i miei uomini non li porto lassú». Allora il maggiore ha mandato la 117. Sono morti quasi tutti.
      Noi, giovani e vecchi, piangevamo a vedere quei disastri. 
      E sull'Ortigara? Gli austriaci
      erano sull'alto, il terreno era scoperto. Andavamo
      all'assalto in pieno giorno. Tra i
      reticolati degli austriaci c'erano i varchi, e gli austriaci lí non
      sparavano, volevano che infilassimo quei varchi e ci arrendessimo.
      Finita un'ondata, morti quelli, avanti gli altri. 
      Mah!  Erano matti a mandarci così al massacro. 
      Avevamo un tenente terribile, un lombardo.
      Un mio compagno mi dice: «Stanotte sono di vedetta, lo ammazzo». 
      L'ha aspettato, con un colpo di moschetto l'ha buttato giú, l'ha
      ammazzato. Si è poi giustificato
      cosí: «Non mi ha detto la parola d'ordine, io ho sparato».
      Non è successo niente. 
      Durante gli assalti noi avevamo l'ordine di sparare fino a distanza
      ravvicinata.  Poi dovevamo
      andare all'arma bianca e scannarci con le baionette. 
      Ma prima di arrivare alla lotta corpo a corpo un po' scappavano
      loro e un po' scappavamo noi, eh... Sul Monte Fiore una notte siamo andati
      undici volte all'assalto, gli austriaci erano tutti ubriachi.
      Una volta mi hanno mandato con una corvée a fare la pulizia in una
      trincea. Era piena di morti, cento
      e più morti, una gamba qua e un braccio là.
      Abbiamo preso quei morti, li abbiamo buttati giù dal burrone.
      La guerra era queste cose qui.  
      Poi è arrivato il disastro di Caporetto. Sono
      rimasto ferito a una gamba. Da
      Serpenizza, trascinandomi, ho raggiunto il Tagliamento.
      Ho visto saltare il ponte con sopra la popolazione, erano
      quattrocento i profughi, sono tutti morti. Gli austriaci erano a duecento metri. Un mio amico mi ha preso a spalle, e a nuoto mi ha portato
      sull'altra sponda.  
      Dopo la ritirata di Caporetto sono tornato al fronte, in linea.
      Un giorno arriva l'ordine: «Bruno Pietro e Luchese Bartolomeo si
      presentino al comando».  Ci
      presentiamo al comando, siamo una trentina di soldati, tutti alpini. 
      Un tenente degli arditi ci dice: «Voi siete tutti volontari, tutta
      gente pronta ad andare all'assalto». Ci
      smistano nelle retrovie. Venti
      giorni di istruzione. Dobbiamo
      saltare un largo fosso pieno di acqua profonda, dobbiamo strisciare sul
      terreno mentre le mitraglie sparano delle pallottole vere
      a filo delle nostre schiene. Non
      pochi dei miei compagni restano feriti. Poi
      ci mandano a Schio, al Campo Jolanda. Abbiamo
      i maglioni neri, con sullo stomaco la testa da morto.
      Abbiamo il pugnale. Abbiamo
      ancora il cappello alpino. La paga
      è di dieci soldi al giorno.  Non
      sappiamo piú cosa dirci. L'unico
      vantaggio è che mangiamo bene. Per
      la prima azione partono sessantatre camion di arditi.
      Ne tornano indietro ancora tre! La
      legge è questa: prendere la trincea in mezz'ora o in due ore, o morti o
      vivi. Quando andiamo all'assalto siamo mezzi ubriachi, i liquori danno il
      coraggio nella testa. Liquori a
      volontà, purché andiamo avanti. [... ]. 
      Alla fìne del 1917 resto ferito alla testa da due schegge di shrapnel
      (granate a pallottole, sparate da cannoni con spoletta a tempo). 
      Cinquantadue giorni di ospedale a Novara, poi mi danno un foglio
      con la proposta di quindici giorni di convalescenza.
      Devo presentarmi all'ospedale militare di Torino.
      Mi presento a Torino, dove mi dicono: «Il tuo reparto è stato
      formato in zona di guerra, tu sei un ardito.
      Devi tornare in zona di guerra, là ti daranno la convalescenza». Mi mandano a Mestre. Da
      Mestre mi spediscono a Verona, al 6° alpini.  Da Verona mi spediscono a Treviglio. Nessuno mi vuole. Sono ormai
      tredici mesi che non torno a casa, tredici mesi di trincea.
      La testa mi fa male. Prendo
      il treno per Cuneo, torno a casa. L'indomani
      la testa mi fa piú male del solito, arriva il medico di Borgo e mi dice:
      «Guai se ti muovi di lí, devi stare a letto».
      Passano due mesi. Come fare
      a presentarmi? Se mi presento mi
      fucilano. Nessuno mi ha cercato. Scappo
      in Francia, a Grassa, dai miei vecchi padroni. 
      Poi finisce la guerra, viene l'amnistia, forse siamo ottantamila i
      disertori. Mi presento al console
      di Tolone, torno in Italia. Mi
      processano, mi condannano a due anni, poi mi assolvono. 
      Mah! Sul Rombon avevo visto
      fucilare due contadini che erano rientrati al reparto con ventiquattro ore
      di ritardo. Il colonnello aveva schierato sei soldati, e i due poveretti
      erano lí a pochi passi. «Sparate», aveva ordinato il colonnello, ma il
      plotone di esecuzione aveva sparato all'aria.
      Allora il colonnello ne aveva presi altri sei: «Sparate o sparo io
      a voi». E avevano sparato! Se i comandi non facevano così ne sarebbero rimasti ben pochi al,
      fronte.
       
      (pag. 198-200)
       
      14.
      Giuseppe Antonio Bruno, nato a Demonte, frazione Cornaletto,
      classe 1892, contadino
       
      Poi
      è scoppiata la guerra del 1915. C'era qualcuno che cantava, eravamo in
      tanti, ci facevamo coraggio. Io
      pensavo: « Per essere un buon guerrigliero non devo farmi uccidere ».
      Sapevo che il nemico era arrabbiato e che se fosse venuto in casa nostra
      saremmo diventati suoi schiavi. [...]. Sono stato sotto l'Altissimo, poi
      sul Monte Plava, poi a Campomulo, e sul Carso, a Doberdò e nel Vallone
      Rosso. [...]. Quando è venuta la ritirata dal Carso sono arrivato fino al
      Piave. Io avevo due cavalli
      da salvare, Argira, il cavallo del mio padrone, del tenente lzzo, e
      Torasia, il mio cavallo, Il tenente Izzo mi aveva detto: «Guarda, Bruno.
      Devi fuggire. Porta in salvo il mio cavallo ». Nella ritirata ne ho viste di
      tutti i colori, la strada era un formicaio, c'erano quattro colonne, degli
      sbandati a piedi, delle carrette, delle trattrici, dei reparti un po'
      inquadrati e dei cavalli.  Sono
      anche svenuto durante la ritirata. Ho
      perduto il mio cavallo. Ma Argira
      l'ho portato al di là del Piave, l'ho consegnato al mio tenente! [...]. 
      (pag.
      202-03) 
      15.
      Andrea Marino, nato a Vinadio, classe 1885, contadino 
      Poi
      è venuta la guerra, ero sposato con due figli, ho dovuto lasciare la
      moglie con padre e madre e le masnà (i bambini), e partire.
      La gioventú non voleva mica andare in guerra, anche qui se
      sbriiíavu per nen pasé abil (si sbrogliavano per non
      passare abili), e poi cosa fare, piú che partire.
      La guerra.... vedevamo solo un gran massacro!
      Andare a rubare la terra a uno e all'altro, la guerra ce l'hanno
      fatta fare solo per far ammazzare la gente..., ob povre mi!
      (Oh, povero me!) Noi abbiamo fatto quattro province e
      poi gli altri ce le hanno mangiate, quelli che hanno poi perduto la guerra
      del I940.  
      Io sono rimasto ferito a Tolmino a una gamba, quattro anni mi sono tenuto
      quella scheggia nella gamba. Mio
      fratello Onoré è rimasto ferito da una bomba a mano agli occhi, era
      negli alpini, è tornato cieco completo, gli hanno poi dato una piccola
      pensione. L'altro mio fratello
      Pietro era in fanteria, è rimasto prigioniero a Caporetto nella ritirata. 
      Io ero con il battaglione Val Cenischia del 4° alpini.
      Al momento di Caporetto ero a Serpenizza, siamo saliti sul Monte
      Stol, poi scesi a Nimis, noi sul Serpenizza eravamo trincerati che se non
      c'era il tradimento giammai ci vincevano, ma lolí l'ban falu a spres (Ma
      quella cosa lì [la ritirata] l'hanno fatta apposta), ci hanno
      fatti scendere a Nimis, lí ho visto passare il re con la macchina e via
      scappava, quaranta giorni avanti e indietro, soldati, popolazione tutti
      mischiati, uh, cose 'dl'aut mund, cose 'dl'aut mund (cose
      dell'altro mondo). Abbiamo
      passato il Tagliamento per tempo, poi hanno fatto saltare il ponte, con
      bestie uomini donne bambini di tutto, cose dell'altro mondo. 
      Le guerre le fanno solo per distruggere. 
      Dopo Caporetto l'impressione era che fosse tutto finito.
      A Bassano ci hanno riordinati, e poi mandati sul Grappa, sul
      Salarolo, prima di Natale, e appena montati lassú siamo andati all'attacco
      quattrocento soldati e sette ufficiali, e ritornati in tredici. [..]. 
      Finita la guerra ancora grazie poterci ritirare a casa, d' cansun
      l'han disse (delle canzoni [promesse di miglioramento di vita con la
      vittoria in guerra]), promesse tante, e poi niente.
      Aspetto ancora adesso la polizza del cavalierato di Vittorio
      Veneto, qui c'è solo un maresciallo che l'ha ricevuta. 
      Finita la guerra ho ripreso la mia vita di prima.  
      (pag.
      211-12) 
      16.
      Pietro Bagnis, nato a Pianche (Vinadio), 1890, contadino 
      
       
      La
      guerra '15-18?  Quello che ho
      passato, munsu...(signore). Già mio nonno mi aveva parlato tanto
      della guerra, lui era della classe 1828. Delle
      volte, quando era nella stalla, io gli dicevo: «Nonu, cunteme 'n po la
      storia 'dla guera» (nonno, raccontami un po' la storia della guerra),
      avevo cinque o sei anni e credevo che fossero storie, favole. Mio nonno mi
      diceva: «Povero te, a Pastrengo, San Martino, Solferino, c'era la
      cavalleria ungherese, la piú trista quando veniva alla carica, faceva dei
      flagelli... » Piangeva mentre raccontava, come faccio io adesso che
      ripenso alla mia guerra. 
      Il 25 maggio 1915 sono partito da
      Nizza, per presentarmi soldato. Sono partito a la ventura, lasciando in Francia la moglie e il
      figlio Luigi che aveva due anni.  Mia
      moglie, con Luigi in braccio, è ancora venuta a salutarmi a Cuneo,
      altroché piangere, avevo la speranza di ritornare presto ma sapevo che
      andavo in guerra e mi disperavo. Tra
      noi soldati dicevamo: «Andiamo al fronte, in breve tempo la vinciamo,
      facciamo presto e torniamo a casa ». Non eravamo istruiti, ci facevamo
      delle illusioni. 
      Quindici giorni a Cuneo, poi subito al fronte con il 33° reggimento
      fanteria, e poi con il 74°. Noi
      non capivamo niente, andavamo al comando come un gregge, «tu mi comandi e
      io obbedisco». Siamo andati
      diretti a Oslavia. Là nelle
      trincee c'era un fango, una sporcizia, si faceva tutto nella trincea,
      pisciare, tutto. Gli austriaci
      erano a centoventi metri e gridavano: «Italiani, venite avanti se volete
      tabacco, venite avanti se volete sigarette».
      E noi ben zitti. Le prime
      cinque pagnotte non le ho assaggiate, il pane veniva ancora dall'ínterno,
      era marcio. La carne puzzava, una
      puzza, una schifosità, eravamo nel fango e nei pidocchi, ecco che cosa
      era la guerra. [..]. Poi siamo andati sul Sabotino.
      Da Gorizia e da Monfalcone sparavano sulle nostre posizioni. Un mattino hanno incominciato a bombardare forte; «Qui siamo
      perduti», ci siamo detti. Nella
      galleria c'erano gli ufficiali, noi
      eravamo obbligati a restare in trincea. C'era
      uno di San Rocco di Bernezzo, ci dice: « Fióí (figlioli),
      siete contenti che recitiamo il rosario?» Abbiamo detto il rosario mentre
      le bombe scoppiavano. Eh, quel
      giorno ne sono morti tanti. [] E
      sugli altipiani di Asiago, a Cima Undici, a Cima Dodici? 
      Il 24 maggio 1916 ci siamo schierati per un'azione, tutto il
      reggimento. E' venuto il prete, ci ha detto: « Ragazzi, vi do la
      benedizione papale, fra qualche minuto qualcuno di voi non sarà piú vivo
      ». Dieci minuti dopo scendevano già le barelle dei morti e dei feriti, e
      noi,sempre avanti, sempre su contro i plotoni dei tedeschi affiancati.
      Siamo rimasti quarantotto ore nella neve fino al ginocchio, mezzi
      congelati, eh, chi non ha fatto la guerra non lo crede.  
      E quando mi hanno preso prigioniero, ferito sul campo di battaglia, sul
      Montebello di Asiago? La prima
      medicazione da parte dei tedeschi è stato un colpo con il calcio del
      fucile nella schiena, un austriaco mi ha puntato la baionetta contro la
      fronte e un altro mi ha dato il colpo nella schiena.
      Ero ferito a una gamba e a un braccio.
      Un mio compagno mi ha preso a spalle, mi ha portato assieme agli
      altri feriti. Eh, mica per niente
      avevo pianto quando ero partito per la guerra, sapevo che cosa era la
      guerra. Noi soldati cosa capivamo? Ci
      hanno portati a combattere, si combatteva senza sapere perché, si
      combatteva per vincere e tornare a casa, tornare a casa era l'entusiasmo
      del nostro pensiero. Se abbiamo
      vinto è perché abbiamo avuto un eroismo noi soldati.
      In quella guerra ho conosciuto gli austriaci e i tedeschi.
      La crudeltà, l'inumanità di quel nemico era spaventosa.
      Li odio ancora adesso i tedeschi. lo che cosa avevo fatto a loro?
      Il tuo governo ti ha mandato contro di me, il mio governo mi ha
      mandato contro di te... Era gente crudele, senza umanità. 
      Da ferito mi hanno portato a Innsbruck, poi tre mesi e mezzo all'ospedale
      in Ungheria, ci trattavano peggio dei cani.
      Infine mi hanno portato vicino a Víenna, a lavorare alla ferrovia.
      Ricevevo qualche pacco da casa, lenticchie. castagne secche, pane
      di segala arrostito. I pacchi
      arrivavano mezzi marci, quando arrivavano. 
      Il 4 novembre 1918, appena avuta la notizia dell'armistizio, abbiamo
      detto: «Adesso comandiamo noi».  Siamo
      partiti a piedi da Vienna, duecentoquaranta
      chilometri per arrivare a Trieste, partiti in quarantuno e arrivati in
      cinque.  A Trieste ci hanno
      chiusi nel porto, con i carabinieri di sentinella, e niente da mangiare. 
      Eravamo migliaia e migliaia. Tutte
      le mattine passava l'autoambulanza a ramazzare i morti, ce n'erano sempre
      venticinque o trenta. [..]. 
      (pag.
      219-221) 
      17.
      Giovanni Battista Ponzo, nato a Canosio, 1888, muratore 
      La
      guerra?  Io ho tirato il
      numero a Prazzo. Ero del 2° genio
      zappatori, a Casale Monferrato. Dopo
      cinquanta giorni di istruzione sono partito per il fronte.
      Eh, eravamo forzati. Non
      pensavo più di salvarmi. Carso,
      San Gabriele, Monte Santo, Castagnavizza, Gorizia, San Michele, San
      Martino, Monte Cucco... Ho lavorato un anno e mezzo a scaricare le
      gallerie del San Michele, erano piene di torpedini, un lavoro pericoloso,
      da disperati. [..]. 
      Nel 1917, sul San Michele, era andato al massacro l'11° bersaglieri.
      Un anno dopo i morti erano ancora tutti là, allo scoperto.
      Nelle trincee i morti erano in piedi, uno teneva su l'altro.
      E tutte le parti di ferro erano verdi per via del gas iprite, le
      stellette, i chiodi delle scarpe, i bottoni delle giubbe... A Castellavizza
      ho visto un grande prato tutto coperto di grigioverde.
      Avevano tentato di conquistare la collina, l'ban barbaie
      tuti (li hanno rubati [ammazzati] tutti), erano alpini, tutti
      morti. Sí che faceva piacere quel
      prato di morti, uno accanto all'altro! 
      E la ritirata di Caporetto? Arrivati
      a San Víto del Tagliamento c'erano due ponti.
      Uno squadrone di cavalleria insisteva per passare sull'altra
      sponda.  Allora un capitano ha
      puntato la pistola contro il comandante dello squadrone, voleva
      che i cavalieri attraversassero il fiume a guado, erano sette le colonne
      che tentavano di passare: colonne di camion, uomini, muli,
      artiglierie, profughi, una gran confusione. 
      Il ponte è poi saltato con lo squadrone di cavalleria
      sopra, gli austriaci erano a trecento metri. 
      E sopra le nostre teste volavano gli aeroplani. «Non andiamo piú
      a casa, è la morte», pensavamo. [..]. 
      Un giorno, a Bassano del Grappa, ho visto un reggímento di alpini che
      saliva verso le linee, erano tutti fiulinot, tutti giovani. 
      Che pena che facevano.  Davanti
      avevano la banda musicale, e loro dietro che piangevano, ragazzini di
      diciotto anni, andavano sul Grappa, è un bell'ossario il Grappa [..]. 
      (pag.
      235-36) 
      18.
      Giacomo Andreis, nato a Marmora, classe 1891, contadino 
      Nel
      1912 sono tornato dall’America, nel 1915 sono partito da soldato.
      La guerra l'ho fatta con il 244' fanteria. Eh, la guerra ci ha
      rovinati. Ci avevano promesso la polis
      (la polizza premio)
      di mille lire, in quei tempi là con la polis avremmo comprato
      quattro vacche! 
      Andavamo all'assalto, non capivamo più niente, le punture ci
      avvelenavano, eravamo come i cani arrabbiati. 
      Passavamo sui morti senza fare un fiato. 
      Erano le punture che 'n balurdíu 'l servel (che
      ci intontivano il cervello), andavamo avanti come ubriachi a infilzare la
      gente nelle baionette. 
      Sul Piave ero così stufo che marcavo sempre visita, io ero anche un po'
      carogna, allora mi hanno legato per molti giorni al palo dei reticolati.
      Gli austriaci erano a meno di cento metri, mi vedevano perché era
      di pieno giorno, ma non sparavano. Gli
      austriaci erano più educati di noi, pensavano: «Quello lì legato al
      palo è contrario al suo esercito, è un punito, così non spariamo». [..]. 
      Eh, la patria era poco o niente per noi. Il
      mangiare era solo come Dio voleva, eravamo carichi di pidocchi.
      Dormivamo nel fango con il telo da tenda sotto, senza paglia né
      niente. La guerra è la rovina
      delle popolazioni. Quando sono
      tornato a casa per quattro mesi non ho potuto dormire, tutte le notti mi
      svegliavo di soprassalto, mi pareva di sentire l'allarme e le bombe e
      l'assalto.  
      (pag.
      239-40) 
      19.
      Giovanni Tolosano, nato a Marmora, classe 1889, contadino,
      bottaio 
      Nel
      1915 sono partito per la guerra con il 32° fanteria.
      Ci hanno portati oltre Udine, al fronte.
      Là un reggimento era stato decimato, eravamo disperati. «Siamo
      arrivati in un bel posto», ci dicevamo, e le gambe tremavano.
      Siamo andati all'arma bianca. Un
      austriaco con un colpo di fucile mi ha rotto la baionetta.
      Allora ho buttato via il fucile, ho preso quell'austriaco per il
      collo, ma era un uomo forte, sono stato un bel momento per perdere, poi
      l'ho rovesciato su un fianco, è passato il mio amico Fantone, allora gli
      ha sparato un colpo in testa. Eh,
      gli austriaci a noi non ci avevano mica fatto niente, ma i nostri comandi
      ci facevano andare. Prima degli
      assalti ci distribuivano l'anice, partivamo sempre un po' storditi. 
      Un'altra volta, era il 21 ottobre 19I5, alle dieci del mattino, il
      capitano ha tirato il sorteggio, quale dei quattro plotoni della compagnia
      doveva uscire per primo.  Il
      nostro tenente era ricco, con un bell'orologio e gli anelli di diamanti.
      Ci dice: «Se muoio non lasciate poi che gli austriaci mi prendano
      l'orologio e gli anelli».  Esce
      per primo, e cade morto. Esce il
      sergente maggiore e va avanti. Esce
      il sergente e cade morto. Esce il
      primo soldato e cade morto. Esce il
      secondo soldato e cade morto. Adesso
      tocca a me, sono tutto agitato, mi preparo bene, salto fuori dalla
      trincea, vado avanti tra le pallottole, poi mi stendo dietro a una piccola
      pietra. Per forza uscire dalla
      trincea, il maggiore era là con la rivoltella puntata che ci obbligava a
      uscire uno dopo l'altro. Sono
      dietro alla piccola pietra quando sento un colpo nella spalla e poi un
      altro colpo nel piede; «Oh pover mi, sun fotu» (Oh povero me,
      sono fottuto), mi dico.  Sto
      lì ben disteso perché le pallottole fischiano.
      Sono su un punto un po' defilato, in un avvallamento, era lí il
      gabinetto della compagnia.  Ho
      la faccia proprio dentro a una merda, ho la faccia coperta di mosche, sono
      tutto nella merda ma non mi muovo, tre ore resto li senza muovere.
      Sento che urlano: « Urrà, urrà», vanno all'assalto.
      Sento il sangue alla spalla e al piede, e resto tre ore sempre lì
      con la faccia nella merda. Con il
      buio tento di trascinarmi all'indietro, il terreno è coperto di morti,
      saranno piú di duecento i nostri morti. Mi
      trascino fino alla trincea, vedo una bottiglia, bevo, è urina. 
      La trincea è vuota, i nostri sono tutti fuori, avanti, o morti o
      vivi, hanno conquistato la trincea degli austriaci. La gamba destra gonfia
      a vista d'occhio, continuo a perdere sangue.
      Arriva un portaferiti, gli chiedo di aiutarmi, mi risponde: «L'ordine
      è di portare giú solo i morti». 
      Hanno paura che puzzino i morti, vogliono sotterrarli. Poi arriva un colonnello, cammina lungo la trincea, impugna una
      rivoltella, va a vedere se ci sono dei soldati nascosti, mi vede, grida:
      «Cosa fate qui?» «Signor colonnello, sono ferito, fate il favore,
      fatemi portare via ... » «Non possiamo, aggiustati come puoi, l'ordine
      è di ricuperare solo i morti».  Eh,
      la guerra è cosí, se non ci fossero gli ordini severi scapperebbero
      tutti! 
      Allora mi trascino giú rotolando lungo la montagna, sono tutto inzuppato
      di sangue, c'è piú di un chilometro dal posto di medicazione, è tutto a
      pietre, a scalini, a salti, rotolo, un po' resto intontito, poi riprendo a
      rotolare, infine faccio un salto di quattro metri e cado come morto
      proprio nel posto di medicazione. 
      Un tenente medico ordina di medicarmi, mi bendano alla meglio, resto lì
      su una barella fino all'indomani. Poi
      con la barella mi portano a Plava, due chilometri piú in basso. A
      Plava concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Lí ci sono anche i pezzi dell'artiglieria e i nostri ci
      hanno messo sopra la croce rossa. Ma
      gli austriaci se ne accorgono, incominciano a bombardare, noi feriti
      saremo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro.
      Nella notte ci portano verso Florian. [..]. Poi arriviamo a
      Udine, nel campo contumaciale, saremo cinquemila adesso i feriti. 
      In uno stanzone al primo
      piano sono sette o otto i medici che operano, c'è anche il dottor Lerda
      di Torino. C'è una finestra
      spalancata, e sotto nel cortile c'è un camion.
      I medici tagliano braccia e gambe, e le buttano dalla finestra, le
      buttano sul camion perché non puzzino. 
      La mia gamba è sempre piú gonfia, nessuno si cura di me, dopo
      cinque giorni mi trascino al posto di medicazione, mi guardano se no
      morivo. [..]. 
      (pag.
      242-244) 
      20.
      Daniele Mattalia, nato a Elva, classe 1897, contadino 
      A
      diciannove anni sono partito da soldato con l'artiglieria alpina, 1° reggimento.
      Sono andato sull'Ortigara, con i pezzi da 65 Skoda, sparavamo anche
      a zero con quei pezzi. Cosa pensavamo di quella guerra? 
      Ne capiu 'n diau bele giúst (Ne
      capivamo un diavolo bello giusto), ne capivamo niente. 
      I'eru 'd rascasun (Eravamo
      ragazzini). 
      Vivevamo come le talpe, se alzavi la testa le pallottole
      arrivavano come la tempesta. Mesi e
      mesi sempre là nella stessa tazza era lì che era dura. 
      Proprio una bella giovinezza. Il
      24 giugno 1917 sono rimasto ferito, pesavo ancora cinquantanove chili. 
      Che cosa era per noi la patria? 
      In quella guerra eravamo ancora abbastanza patriottici. 
      Ma era triste quella guerra. Ho
      visto il 6° alpini che andava all'assalto, andavano lo stesso come le
      capre quando vanno al sale.  Andavano...
      Saltavano fuori dalla trincea dicendo il rosario! 
      (pag.
      254-255) 
      21.
      Spirito Magno Rosso, nato a San Pietro di Monterosso, classe
      1896, contadino 
      Poi
      nell'autunno del 1915 sono partito da soldato con il 1° alpini, e nel
      1916 sono andato al fronte sul Pal Piccolo e sul Pal Grande, e
      infine nel Trentino, sul Monte Maio. Sono
      rimasto ferito sul Cimon, tredici ferite avevo quando sono caduto
      prigioniero. Dopo due mesi di
      ospedale a Posen, in Engadina, mi hanno trasferito a Mauthausen.
      Infine tramite la Commissione Americana e Svizzera mi hanno
      restituito all'Italia come grande invalido.
      Che cosa era per me la patria quando ero al fronte? Era la mia famiglia, la nostra casa e basta. 
      (pag.
      271) 
      22.
      Pasquale Roggero, nato a La Morra, classe 1890, contadino 
      Poi
      la guerra del '15, una guerra che ha rovinato le famiglie contadine, di
      certe famiglie ne sono partiti tre, noi eravamo quattro sotto le armi, in
      campagna non c'erano più braccia, toccava alle donne lavorare per gli
      uomini... Eh, i giovani non volevano partire per la guerra.
      Un nostro parente diceva: «Mi voi vene malavi, mi voi
      vene malavi» (io voglio ammalarmi), aveva una pleurite e l'ha
      trascurata, non mangiava piú, fumava a gran forza.
      E' morto a casa, è morto per non andare a morire in guerra!
      Chi si faceva togliere i denti, chi beveva i decotti di paglia: «Per
      morire là muoio a casa».  
      Come la pensavo io? La pensavo come
      la gran parte dei contadini, non volevo la guerra. 
      La sità i'era piasà diferent, (la città [la gente della
      città] era sistemata in modo differente, era un'altra cosa) in città la
      pensavano diversa.  Sono stato
      sul Carso, in faccia a Gorizia, vite cattive: poi sul Trentino, sul Sabotino
      quasi un anno al comando di Badoglio, istu, i camminamenti pieni
      d'acqua, pioveva sempre... La guerra dell'ufliciale era diversa dalla
      guerra del soldato: l'ufficiale aveva un'altra situazione familiare,
      un'altra paga, e la carriera. Bella carriera ho fatto io, mi sono rovinato
      la salute, sono tornato a casa che sembravo morto, non mi hanno piú
      conosciuto. L'hanno menata lunga
      per darci poi questa piccola pensione di Vittorio Veneto! 
      Io non ho mai sparato in guerra. Perché
      sparare? A volte mi davano l'ordine
      di sparare, quando ero di vedetta: piantavo il calcio del fucile per terra
      e sparavo al cielo, poi ascoltavo che la pallottola tornasse giú, lú
      cunus nen chiel li, perché maselu.. (non
      lo conosco quello li, perché ammazzarlo..). Sono rimasto ferito
      sul San Míchele, schegge nel fianco, nella schiena, in un piede. Uscito dall'ospedale sono tornato al fronte e mi hanno preso
      prigioniero, sono finito in Austria nelle baracche a fare una gran fame, a
      vivere di rape e cavoli.
      
       
      Nel 1916 ero sul Carso, di fianco al San Míchele, dopo due
      mesi di trincea non ne potevo più, Il mangiare e il bere arrivavano
      all'una dopo mezzanotte, quando arrivavano: una sete tra quelle pietre...
      E non veniva mai nuvolo, mai una
      goccia di pioggia. «Se scappo di qui ... », mi dicevo.
      Mi danno una licenza di quindici giorni, torno a casa e riprendo a
      vivere.  Ero d'accordo con i
      miei amici rimasti al fronte, loro mi spedivano delle cartoline in
      franchigia, se c'erano dei combattimenti mettevano i saluti e poi un po'
      di puntini, se i combattimenti erano brutti mettevano una fila di puntini,
      era un codice tra noi per capire, io avevo anche fatto così con loro
      quando erano in licenza. Mi
      arrivano tre o quattro cartoline con lunghe file di puntini, scade la
      licenza e dovrei tornare al fronte. Mio
      fratello Minot' mi porta alla stazione di Bra, col cavallo.
      Ma come vedo il treno torno a casa, arrivo a casa prima dei
      cavallo... L'indomani la stessa cosa: « Vadu a la mort, vadu
      a la mort» (vado alla morte, vado alla morte), dico a Minot.
      Salgo sul treno, ma scendo subito dall'altra, e me ne torno a casa.
      A casa, mia madre si dispera e mio fratello anche, mia madre
      piange, la licenza è scaduta e rischio di finire male.
      Allora dico ai miei di casa che è meglio se vado alla stazione da
      solo. Vado alla stazione ma non
      parto, e non torno a casa: resto nascosto presso gli amici. Quando finalmente mi sento deciso di partire sono ormai passati
      molti giorni. Ad Asti vedo una fila
      di soldati attaccati uno con l'altro con le catene, li fanno salire su un
      vagone, li portano al fronte. Con
      un treno e l'altro arrivo fino a Modena, poi prendo una tradotta che mi
      porta al fronte. Arrivo in linea
      che sono ormai trascorsi quarantasette giorni, il mio reparto è impegnato
      in un'azione, non mi succede niente, mi confondo nella confusione. 
      (pag.
      291-92) 
      23.
      Giulio Cesare Mascarello, nato a Barolo, classe 1895,
      contadino, vinificatore 
      
      
      Ho assistito alle lotte tra interventisti e neutralisti, 'd patele
      'dla furca (delle botte da forca). Io
      ero neutralista. Poi la mia classe
      di terra deve andare sotto le armi nell'agosto del I9I5. Per sfuggire al
      servizio militare - in quei tempi si diceva che la guerra sarebbe durata
      soltanto tre mesi - mi metto d'accordo con un padrone pescatore, preparo i
      documenti, così passo nella classe di mare di cui è previsto il richiamo
      nel gennaio 1916. 
      Infine mi arriva la cartolina precetto, devo presentarmi a La
      Spezia. Cinquanta sessanta giovani
      nelle mie condizioni non dormono piú a casa ma dormono nelle chiatte del
      porto, non si presentano alle armi, risultano irreperibili, aspettano che
      la guerra finisca. Nessuno mi
      cerca, vivo anch'io tranquillo un paio di mesi, non mi presento.
      Un brutto giorno con una retata arrestano tutti quelli che
      dormivano sulle chiatte.
      Allora mi presento a La Spezia. In
      una caserma saremo cinquemila seimila uomini.
      Un bel giorno riesco a farmi assegnare nei «semaforisti».
      Mi mandano a scuola sei mesi, poi mi destinano all'Isola di
      Sant'Antioco, nel sud della Sardegna, perché ero schedato come
      neutralista.  Là ci incontriamo trentatre schedati, tutti neutralisti,
      anarchici, socialisti. Il nostro
      maresciallo è anche lui schedato perché ha sposato una tedesca. 
      Viviamo da papi, nessuno ci disturba. 
      Poi mi trasferiscono a Brindisi. [..] Nel 1919 mi congedano. 
      (pag.
      297-98) 
      24.
      Angelo Fantino, nato a Monforte, classe 1897, contadino 
      Nel
      1915 sono partito da Parma con l'artiglieria pesante, con i pezzi
      da 149, e sono andato al fronte. Eravamo
      dei bambini. Siamo scesi dalla
      tradotta vicino a Cormons, siamo andati sul Sabotino.
      Non sapevamo nemmeno dove erano gli otturatori dei nostri pezzi. Allora sono venuti dei graduati anziani dalla Val Lagarina a farci
      istruzione, ci raccontavano della vita dura di guerra, e noi credevamo che
      ci contassero delle balle, invece erano verità. [..] 
      Sull'altipiano di Asiago noi abbiamo sparato venti minuti di seguito nel
      culo degli alpini. Li abbiamo fatti
      andare avanti per forza, mancavano i collegamenti, tutte le linee
      telefoniche erano strappate. Quando
      il mio capitano si è accorto dello sbaglio si è messo a urlare
      disperato.  Lì c'era un cappellano militare che ha detto soltanto: «Speriamo
      in Dio... » «Quale Dio? - gli ha urlato il mio capitano - il tuo Dio che
      non ha compassione di quattordici milioni di madri che chiedono che i loro
      figli tornino a casa? Il tuo Dio...
      Vergognati». Il cappellano è
      scappato via. Quello che hanno di
      bello i preti è che quando hanno da stare zitti stanno zitti. Da lì mi sono fatto il concetto: «Guarda qui da chi siamo
      comandati, qui siamo condotti da una potenza occulta, sí 'd póli leie
      niente perché sun pí fort che 'l brus (qui non puoi fargli
      niente perchè sono più forti del formaggio forte) ». Loro
      approfittano della guerra per comandare, per fare i loro interessi.
      Tanto è vero che a Caporetto il mio capitano diceva: «Qui comanda
      padre Semeria, altroché Capello».  Padre
      Semeria era il capo dei cappellani. Nei giorni di Caporetto, dalla
      Bainsizza sono arrivato a Modena.  Quarantadue
      giorni di ritirata, è sempre piovuto, andavamo nei campi a raccogliere
      rape e cavoli. Prima mangiavamo i
      cavalli, poi dopo il Tagliamento non abbiamo piú trovato niente.  C'erano le colonne di uomini donne bambini, e gli austriaci
      vestiti da soldati italiani che ci sparavano nei fianchi.
      L'impressione era che la guerra fosse finita.
      Possiamo ringraziare quelli del '99, il '99 si é preso tante di
      quelle batoste, è riuscito a fermarli al Piave.
      Sono andato fino a Modena da sbandato, poi mi hanno di nuovo acciuffato.
      Giravano delle pattuglie che se ti prendevano da sbandato facevano
      solo che spararti.  C'erano i caproni, i carabinieri, che fucilavano, oh
      ne ho viste delle fucilazioni. [..] 
      (pag.
      302) 
      25.
      Dante Cane, nato a Magliano Alfieri, classe 1899, contadino,
      esercente 
      Se
      ho fatto il militare? Salandra,
      Sonnino, tutti quei delinquenti borghesi, hanno chiamato sotto le armi il
      '99 prima del '98. Il 10 giugno
      1917, non avevo ancora diciotto anni, mi presento a Torino, in corso
      Vittorio, alla Caserma La Marmora.  Mi
      mandano nel canavesano, alla 3 a batteria, a fare istruzione.
      Io ero già antimilitarista, non volevo saperne della guerra.
      Il rancio faceva schifo che nemmeno i maiali lo mangiavano, acqua e
      cavoli e patate, andavamo nella cascine a rubare la frutta per
      toglierci la fame. Scrivevamo a
      casa di mandarci un po' di pane. Arrangiandomi,
      passando da un reparto all'altro, collezionando punizioni, sono sempre
      riuscito a schivare il fronte. [..] 
      Che cosa ne pensavano i contadini della guerra?
      Chi poteva cercava un posto in fabbrica a Torino e si imboscava.
      C'era chi mangiava i sigari e si rovinava la salute.
      Uno del 1895, malato, non si curava per paura che lo dichiarassero
      abile: è morto a casa! Ogni
      cinquanta contadini c'era una testa calda, un entusiasta. Certo il morale della gente era basso: arrivavano i mortuori (annunci
      mortuari), uno era caduto prigioniero, l'altro era disperso..   
      (pag.
      312) 
      26.
      Giuseppe Bassignana, nato a Murazzano, classe 1896, contadino 
      Il
      disastro era già cominciato con la guerra del '15. Se ho fatto quella
      guerra?  Sicuro, la guerra l'hanno
      fatta i contadini, d'altri non c'era nessuno.
      Ero nel 201° fanteria, brigata Sesia.
      Adesso sono «cavaliere». Che
      cosa pensavano i contadini? Pensavano
      a niente, pensavano solo a scappare, a salvare la pelle, o di andare in un
      reparto che non combatteva. 'L
      cuntadin l'é ignurant a ses dubie (il
      contadino è ignorante a sei pieghe).
      Non dico che non ci fosse patriottismo tra i contadini, gli ufficiali
      ci facevano sempre un po' di morale, ma poi la morale non bastava più
      perché le cose andavano male, eravamo sempre in trincea, mal vestiti, mal
      nutriti, faceva paura, 'n lasíu 'd prúcbe, de strapasine' (Ci
      facevano delle sgridate, delle paternali), quando c'è stato Caporetto che
      cosa ci hanno detto..., «Vigliacchi, traditori, avete venduto il fucile,
      avete venduto la mamma», ma ogni sorta di bestialità! 
      lo la prima volta che sono andato in trincea era l'inizio del 1916, sono
      stato due mesi senza posare le giberne, non le mutande, le giberne.
      Dopo gli ufficiali ci hanno detto: «Adesso potete slacciare le
      giberne». Poi la Russia ci ha
      salvati.  La Russia prima era
      ferma, gli austriaci che erano in trincea lungo il fronte russo erano
      tutti giardinieri, piantavano i fiori, intanto i russi erano sempre fermi,
      non muovevano. Quando i russi sono
      venuti un po' avanti il nostro fronte si è alleggerito perché hanno
      tolto i tedeschi per mandarli contro i russi: così abbiamo respirato un
      po', siamo andati nella zona di Gorizia, abbiamo partecipato alla sua
      liberazione, il 31 agosto sono stato ferito, ho ancora qui la
      ferita nella gamba, sono stato novantacinque giorni allospedale, il
      periodo piú bello della mia vita di soldato, poi quaranta giorni
      di convalescenza, così mi sono salvato un po' di guerra. 
      Quando è arrivata la ritirata di Caporetto io non ero già più
      mitragliere, ero zappatore lungo la strada tra Plava e il Monte Santo. Una sera sentiamo sulla nostra destra un fuoco di fucileria
      furioso. Cosa sarà?
      Sarà un attacco?  Intanto arrivano gli aeroplani a bassa quota. Ma quello lì
      è tedesco?  Ma quello lì è
      austriaco? Sono passate due automobili
      scoperte piene di generali, andavano verso le retrovie, uno dei generali
      aveva quattro righe, era il Re.  Al
      mattino ci arriva un ordine come se niente fosse: «Raggiungete il vostro
      reggimento che si trova a Caporetto». A Plava era già una cosa
      spaventosa.  Sul ponte un carreggio dopo l'altro, abbiamo superato il
      ponte passando lungo il parapetto. Siamo
      saliti sul Monte Curaro, c'erano le trincee bell'e fatte e blindate,
      avessero voluto i nostri lì resistevano. 
      Ma c'era stato il tradimento, questa era la voce del soldato.
      Un po' oltre Monte Curaro abbiamo incontrato i francesi che erano
      appena arrivati con i loro cannoni da 105, i francesi ci dicevano:
      «A Roma? A Roma? » E noi a loro:
      « Paris? Paris? » Non erano
      ancora arrivati i francesi e già ci prendevano in giro.
      Poi abbiamo incontrato l'II°' reparto di assalto che ci ha
      insultato: lì c'erano gli arditi, i balengu, i prepotenti, più
      che tutto i balengu. Quando
      il fronte era ancora fermo noi in trincea stavamo bravi e i tedeschi
      anche, eravamo tutti contadini tanto da una parte come dall'altra, e
      l'avevamo capita che non aveva senso ammazzarci tra noi.
      Allora arrivavano gli arditi, í balengu, a agitare le
      acque, a creare il subbuglio.  Eh
      già che l'avevamo capita, perché quando facevamo dei prigionieri
      vedevamo che era povera gente ignorante come noi, gente che non capiva
      niente come noi. 
      La ritirata di Caporetto è stata un grande disastro. I nostri ufficiali
      che ci gridavano: «Vigliacchi, avete buttato le armi ... » lo l'avevo
      conservato il fucile, l'avevo in mano. E i nostri ufficiali?
      Il mio colonnello si era messo una benda su un occhio, fingeva di
      essere ferito, viaggiava a cavallo, e col frustino cercava di colpirci
      perché camminassimo lesti. Oh, ci
      trattavano male i nostri ufficiali, eravamo solo contadini, i contadini
      non hanno mai contato niente.
      
       
      
      
      (pag. 323-24) 
      27.
      Lorenzo Boeri, nato a Serravalle Langhe, classe 1891, contadino 
      Sono
      arrivato a casa nel febbraio del 1914. Nel maggio del 1915 ero a casa che
      lavoravo nei campi, mi è già arrivata la cartolina del richiamo.
      Mi sono presentato a Borgo San Dalmazzo, dove mi dicono: «Domani
      si parte per il fronte». Ma io volevo ancora vedere una volta padre e madre.
      Chiedo il permesso, mi dicono «no».
      Allora parto a piedi, e arrivo a piedi a Serravalle, settanta
      chilometri a piedi! A casa ho paura
      che vengano i carabinieri a cercarmi, ogni tanto scappo nelle rive a
      nascondermi, resto a casa quattro giorni, poi torno a Borgo.
      Ma il mio reparto è già partito per il fronte.
      Un caporale mi accompagna a Udine, hanno paura che scappi di nuovo. 
      Mi mandano sul Sabotino, dove dobbiamo andare all'assalto. [..] Poi ci
      portano sul Carso, dove resto ferito. Quaranta
      giorni e più di ospedale. [..] Poi vado sul fronte di Gorizia.
      Oltre Gorizia c'è il cimitero, andiamo all'assalto contro il
      cimitero, spalanchiamo il portone e ci infiliamo dentro.
      Le altre compagnie invece sono passate sui fianchi del cimitero,
      sono già avanti. C'è il muro di cinta da superare, è alto tre metri.
      Dal portone non possiamo uscire
      tanto sparano. Vedo un tavolo nella
      sala mortuaria, mi infilo là sotto. Poi
      sento un bruciore nella schiena, dico a un mio amico: «Guarda un po' cosa
      c'è». Lui guarda e mi dice: «C'è
      un buco che passano due dita». Sento
      caldo sulla pancia, mi slego i pantaloni, la pancia è inondata di sangue.
      Una scheggia ha trafitto il tavolo, e si è infilata nel mio
      fianco, tra due costole. Lascio che
      il combattimento si calmi, poi mi trascino fino al posto di medicazione.
      Lì infilano una pinza nella ferita, estraggono un bel pezzo della
      mia giacca, il buco è grosso come una noce, la scheggia me la tolgono poi
      a Novara. 
      Altro periodo di ospedale, poi mi mandano sul Grappa. Lí è brutta, ístuna. Gli
      austriaci sono a cinquanta metri ma sono bravi. Da venti giorni non assaggio più il vino, dico al mio
      caporalmaggiore: «Lasciami andare indietro, allo spaccio», lo spaccio è
      come fosse da qui a Bossolasco. Sono
      quasi arrivato allo spaccio che incontro il cappellano. «Dove vai? » mi
      chiede. «Cribbiu, siamo lassú che abbiamo sete, vado a prendere
      un fiasco di vino a pagamento».  Tira
      fuori la pistola da quel suo bagagiun', (fondina) a
      me il sangue dà il giro, se avessi il fucile due schioppettate gliele
      darei, e poi tornerei in linea e mai piú nessuno saprebbe che sono stato
      io... [..] 
      Eh, eravamo tutti stufi di quella guerra. L'ufficiale
      andava avanti e tu dovevi andargli appresso pei 'dle fee'
      (come delle pecore). Gli
      ufficiali stavano bene. Il mio
      capitano aveva nella sua baracca una tedesca, una friulana vestita da
      soldato. Sí, ne morivano anche
      degli ufficiali, se non va l'ufficiale non va il soldato. [..] 
      Disertori? Sí, ne ho conosciuti
      tanti. C'era una squadra di
      disertori qui, in queste zone, nei boschi.
      Uno di questi disertori una notte è entrato in una casa, Marieta
      era sola con sua madre, quel disertore della bassa Italia ha buttato una
      mano sulla bocca di Marieta perché non gridasse, Marieta gli ha morso un
      dito, gliel'ha portato via al completo. Sempre questo disertore ha poi
      ammazzato quella fiulina (ragazzina) che andava a messa a La
      Cerretta, lì dalla Pedaggera verso Roddino, li c'erano dei boschi.
      Il disertore l'ha abbracciata, l'ha trascinata 'n na riana, (in
      un valloncello) era una bella matota,
      (ragazza) le ha fatto quello che ha voluto, poi le ha messo na
      súca' (un ceppo) sulla testa.
      Eh, qui c'era la ghenga dei disertori, erano una quindicina.
      La popolazione non li tradiva, i disertori aiutavano le famiglie
      contadine nei lavori, i carabinieri li temevano i disertori. [..] 
      Mah!  Con la guerra hanno
      massacrato tanti di quegli uomini per prendere due montagne... Quando è
      finita la guerra avevo ventinove anni, nove anni li avevo passati da
      soldato.  Ero già vecchio, ho
      ripreso a fare il contadino. 
      (pag.
      331-333) 
      28.
      Giovanni Montanaro, nato a Serravalle Langhe, classe 1892,
      contadino 
      E’
      arrivato il capitano, un toscano, Aschini si chiamava, è poi morto sull'Ortigara.
      Il capitano ci ha fatti partire subito, ottanta chilometri a piedi
      fino a Barricate, a Campigoletto abbiamo dormito nella neve, siamo
      arrivati sull'Ortigara senza aver mangiato, lassù c'era solo delle
      damigiane con della roba forte, roba che ci stordiva, che ci bruciava
      dentro. 
      Eh, l'Italia è furba, l'Italia manda sempre i suoi soldati sotto sotto.
      Gli austriaci erano a trenta metri dalla nostra trincea, li
      sentivamo a parlare. Piú sulla
      sinistra i nostri si scambiavano le pagnotte con gli austriaci.
      Noi eravamo come rimbambiti, ci avevano fatto delle punture per
      renderci piú forti, non sei piú né una persona né niente.
      Eh, a chi deve combattere, al soldato semplice, la guerra non interessa.
      La guerra interessa a chi è seduto, a chi capisce che cosa
      avviene. Noi non capivamo niente,
      noi cercavamo solo di non morire. Non ci interessava ammazzare gli austriaci, ma bisognava ammazzarli
      perché se vengono avanti ammazzano te. Chi capita in quel giro è disgraziato. Io non sono piú un bambino, ho ottant'anni.
      Dico che chi ha avuto qualche vantaggio dalla guerra sono tutti
      quelli prediletti, magari nascosti nei buchi, ma gli altri senza un nome
      sono niente. Il merito era sempre
      dei capi, mai dei bocia, di quello che portava 'l buiò..(attrezzo
      per portare a spalla la calce, si intendono così i lavori umili) 
      E Caporetto? criste... Alla Catena dei Sei Monti, verso Gana, era
      crollata una galleria seppellendo molti soldati.
      Noi eravamo sotto un ponte quando arriva un colonnello senza una
      mano, del 60 alpini, e ci dice: «Ragazzi, venite con me».  Io credevo che ci portasse al trenino di Vicenza.
      Va, va, va, camminiamo come da Alba a qui, una trentina di
      chilometri, ci ha portati sul Grappa. Lí sono arrivati gli arditi, più di quattrocento: salivano da
      Bassano con i camion, sono andati all'assalto al Losalone.
      C'era il buco di una bombarda, era pieno d'acqua: mi sono nascosto
      là dentro; « Se vado in fondo annego », mi dicevo, poi sono riuscito a
      tirarmi fuori, ero largo come un armadio, pieno di acqua e di fango. 
      Gli arditi erano in gamba, tutti volontari, truppe d'assalto:
      facevano gli assalti e poi a riposo, ma tanti non andavano più a riposo! 
      Gli alpini erano il corpo più disgraziato, sei sempre in trincea,
      sempre sempre, ad aspettare i conducenti che ti portino il vino acido. 
      Sul Grappa sono rimasto ferito ai piedi, al braccio, a una mano.
      Avevamo quelle punture che ci facevano restare come scemi. 
      E se non andavi avanti ti sparavano nella schiena.
      Se erano tanti i morti? Oh povra
      masnà... (oh, povero bambino). Sotto l'Ortigara c'era un piano
      di morti... E' meglio cambiare discorso, se no vengo matto. 
      C'era chi si stufava della guerra e disertava.
      Tutti eravamo stufi, come rimbambiti.
      Gli ufficiali avevano le balle piene anche loro.
      Conosco un capitano che si è sparato, che si è ferito a una mano
      per farla finita... C'era il soldato che si sparava una schioppettata in
      una gamba pur di andare lontano dal fronte. [..] 
      Qui nella Langa saranno stati cinquanta i disertori, e avevano ancora
      tutti dei soldi. Aiutavano la gente
      nei lavori di campagna, aiutavano le donne che avevano i mariti al fronte,
      le tenevano allegre... La gente dava da mangiare ai disertori, anche perché
      aveva paura. Alla Pedaggera le due
      figlie 'd Minúciu le hanno trovate morte: portavano da mangiare nei
      boschi, chissà chi le ha ammazzate.
      
       
      
      
      (pag. 339-341) 
      29.
      Alessandro Scotti, nato a Montegrosso d'Asti, classe 1889,
      esponente del partit dei contadini d'Italia 
      La
      guerra del '15. Ero interventista ero sottotenente degli alpini.
      Appartenevo a una famiglia di patrioti.
      Mio padre era stato bersagliere con La Marmora e poi con Cialdini;
      un mio fratello aveva preso parte alla guerra d'Africa nel 1896, il mio
      insegnante elementare, il maestro Camera, era un maestro risorgimentale. 
      Ecco, sono stato educato in questo ambiente.
      Quando sono partito per il fronte mio papà mi ha detto: «Io sono
      arrivato fino all'Isonzo, tocca a te andare al di là». 
      Il mio sogno era di conquistare Trento e Trieste. [..] 
      Nel 1916 ad Aosta, mi assegnano cento uomini, tutti valdostani di
      un «reparto complementi». Li
      accompagno al Pasubio, dove ci assegnano al battaglione Cervino, 33°
      compagnia. La nostra 5° divisione
      la comanda il generale Graziani, il vecchio, un uomo valorosissimo ma
      duro. La sera del 9 ottobre il generale Graziani ha notizia che gli
      alpini di una compagnia del battaglione «Monte Berico» hanno gridato «Viva
      la nebbia», nell'imminenza di un assalto: « Viva la nebbia», perché
      speravano che l'assalto venisse rimandato.
      Il generale raggiunge subito le linee, e fa legare con le funi da
      carro tutti i novanta alpini della compagnia del «Berico».
      Poi raduna gli ufficiali del battaglione, perché assistano alla
      lezione. Fa sfilare di fronte ai
      novanta una compagnia armata, ordina che la compagnia si schieri per la
      fucilazione. Intervengono i
      cappellani militari, la trattativa dura un quarto d'ora, il generale
      ridimensiona il suo programma, impartisce un nuovo ordine: «Allora ne
      faccio fucilare dieci, si proceda alla decimazione, uno
      ogni dieci faccia un passo avanti». 
      Altro intervento dei cappellani
      militari, e finalmente la decisione definitiva:«Se mi prendete il Dente
      del Pasubio vi considero tutti assolti. Altrimenti,
      dopo l'assalto, si procederà alla fucilazione».
      Si va all'assalto, gli alpini del «Berico» li vedo a cadere quasi
      tutti nel massacro. Io devo
      occupare il Groviglio, un mammellone alle spalle del Dente.
      La prima ondata scompare al completo.
      Con la seconda ondata arrivo quasi in cima al Groviglio, mi guardo
      attorno, siamo rimasti in pochi, quattro alpini e un fante della brigata
      «Liguria», il fante da dove viene non lo so.
      Allora mi corico sui rododendri, metto la mia testa al riparo sotto
      il corpo del tenente Righetti, morto nella prima ondata.
      Con l'imbrunire, via, io e i quattro alpini superstiti rientriamo
      nelle nostre linee. Mi hanno poi
      dato una medaglia di bronzo perché ho fatto il mio dovere in pieno. 
      Poi è arrivata la neve, sei metri di neve.
      Ho trascorso l'inverno a cinquanta metri dal Dente del Pasubio, in
      una stanzetta di neve, leggendo
      Fogazzaro. Gli austriaci erano a
      cento metri. Se uno metteva fuori
      la testa, partiva! 
      Nel 1917 ho chiesto di andare volontario negli arditi, nel gruppo
      comandato dal colonnello Testafuochi, sempre con il battaglione «Cervino».
      Ancora assalti e contrassalti, prima alle Melette, poi a Monte Fior.
      [..] 
      Se i miei soldati sentivano quella guerra?
      Ce n'erano degli uni e degli altri.
      Tutti l'accettavano, il dovere era il dovere.
      Hanno poi cominciato a mormorare dopo Caporetto. Borbottavano
      sempre, ma il dovere lo facevano, e resistere resistevano. 
      Non ho mai visto nessun soldato a scappare.
      Io la guerra la vivevo con entusiasmo, per vincerla.
      Noi dal Pasubio vedevamo Rovereto, io combattevo per arrivare a
      Trento e Trieste. Dicevo ai miei
      soldati: «Più la vinciamo questa guerra, più finisce presto ». Certo
      massacri ce ne sono stati tanti. La colpa era di Cadorna che non aveva genialità.
      La guerra l'hanno fatta i montanari e i contadini, l'80 per cento
      del sangue versato in guerra era sangue contadino.
      Ufficiali di carriera ne ho visti pochi o nessuno in prima linea,
      erano tutti negli uffici, la guerra l'hanno fatta gli ufficiali di
      complemento e i sergenti vecchi. Ai
      contadini avevano promesso la terra, anch'io in parte ho creduto nelle
      promesse della terra ai contadini. Nell'agosto
      1919 ho
      scritto sul «Popolo d'Italia»: «Noi dovremmo fare un governo con maggioranza
      contadina». 
      (pag.
      412-414) 
      Testimonianze tratte da una interessantissima ricerca
      di Nuto Revelli che ha raccolto testimonianze di vita contadina (di area
      piemontese) facendo ricostruire ai suoi intervistati (tutte persone
      anziane) la loro biografia intorno ad alcuni temi (il lavoro, la famiglia,
      l'emigrazione, la guerra, il fascismo, il confronto tra passato e presente
      ecc). In molti dei discorsi si fa riferimento alla prima guerra mondiale. 
      (da Nuto Revelli, Il mondo dei vinti , Torino, Einaudi, 1977)
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