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Sulla prima guerra mondiale

La disciplina

L’adattamento dei soldato alla guerra si compiva grazie al concorso di molteplici fattori, fra i quali la disciplina e la minaccia delle punizioni svolgevano senz’altro un ruolo di primaria importanza. Altrettanto accadeva anche negli altri eserciti combattenti e, qualche anno più tardi, lo stesso fondatore dell’armata rossa, Trockij (Trotzskij), avrebbe dichiarato che era impossibile costruire un esercito senza avere nell’arsenale del comando la pena di morte: «Fin tanto che quelle scimmie senza coda, - disse - orgogliose della loro tecnica, che si chiamano uomini, formeranno gli eserciti e combatteranno, il comando di quegli eserciti dovrà porre i soldati tra la morte probabile sul fronte e quella inevitabile dietro il fronte» (123).
Trockij, però, soggiungeva che non bastava il terrore per mantener uniti gli eserciti e attribuiva grandissima importanza al «cemento delle idee», alla propaganda, che egli stesso dirigeva e curava percorrendo la linea del fronte a bordo del suo famoso treno blindato (124). Nell’esercito italiano, invece, la propaganda svolgeva un ruolo molto più modesto.
Il gen. Cadorna, mentre non sollecitava uno sviluppo delle attività propagandistiche o anche soltanto ricreative dell’esercito, si occupava con tenace insistenza dell’applicazione del codice militare. Già durante i combattimenti dell’estate-autunno 1915 si erano verificati frequenti casi di indisciplina fra le truppe, e Cadorna aveva reagito alla «eccessiva e nefasta indulgenza» con la quale la magistratura militare li aveva giudicati (126). Nell’inverno 1915-1916 i combattimenti entrarono in una fase assai più calma, ma i casi di indisciplina continuarono egualmente a verificarsi. La stasi invernale delle operazioni, del resto, ebbe valore relativo, poiché in cinque mesi, dal 1° dicembre al 30 aprile, furono contati 15 mila morti e più di 35 mila feriti, su una forza media di 1 milione e 150 mila uomini appartenenti all’esercito operante(127). Gli incidenti disciplinari fra le truppe furono numerosi soprattutto verso la fine dell’anno, per l’assegnazione delle licenze e dei turni di riposo.
Nel dicembre deI ‘15, per esempio, il gen. Rocca, comandante della brigata Ferrara, condusse le sue truppe al riposo dopo che esse avevano sostenuto duri combattimenti sul San Michele. Il generale organizzò esercitazioni, sfilate, distribuzioni di ricompense. Scrisse nelle sue memorie di aver galoppato spesso, in quei giorni, sul suo focoso destriero davanti alle truppe schierate in bell’ordine poiché queste piccole coreografie, chiamate in gergo militare «Trionfi di Mardocheo», avevano il loro valore e, se non esagerate, aumentavano l’ascendente del superiore. Non era trascorsa una settimana che uno dei due reggimenti della brigata, il 48°, alla vigilia del ritorno in linea si ammutinava e faceva fuoco contro i suoi ufficiali. Il 48° era composto in gran parte di calabresi che volevano partire tutti insieme per la licenza: all’entrata in guerra erano tremila, ma in pochi mesi si erano ridotti a 700; il primo turno di licenza prevedeva la partenza di soli 200 uomini. Notte-tempo i soldati cominciarono a rumoreggiare e a sparare. Occuparono un piazzale. Durante gli incidenti due soldati caddero uccisi. Carabinieri e altre truppe, presto accorsi, ristabilirono l’ordine e un tribunale straordinario, riunitosi sotto la presidenza dello stesso gen. Rocca, condannò due soldati alla fucilazione(128).
Il 26 dicembre, a Sacile, quattrocento alpini in partenza per il fronte (alcuni dei quali ubriachi) uscirono dalla caserma sparando e gridando: «Abbasso Salandra! Viva Giolitti!». Gli alpini si lasciarono condurre alla stazione ferroviaria, ma qui giunti interruppero la linea telegrafica con Treviso e costrinsero altri trecento soldati, anch’essi in partenza per il fronte, a scendere dal treno. Gli ufficiali fecero opera di persuasione; gli animi si placarono e con quattro ore di ritardo i reparti riuscirono a partire (tranne 28 uomini allontanatisi dal grosso, i quali furono arrestati). Giunti a Cividale, gli alpini discesero tranquillamente dal treno. Il loro comandante, nonostante il contrario avviso del comando di tappa, rifiutò di far compiere ispezioni «per non riaccendere gli animi», e ordinò che i reparti proseguissero alla volta di San Piero d’Isonzo, luogo designato per il pernottamento. Immediatamente carabinieri e ufficiali superiori si recarono a San Piero per accertare le responsabilità degli ufficiali alpini che non avevano frenato i disordini fin dall’inizio, e per identificare tra le truppe i colpevoli, in modo da fornire a tutti un «salutare esempio» (129). Con procedura straordinaria, nella notte tra il 29 e il 30 dicembre, il tribunale militare giudicò 35 militari di truppa, assolvendone 4 e condannandone 31 a pene varianti dai 15 ai 5 anni di reclusione(130).
Anche questa volta Cadorna rimase deluso per l’andamento del processo, ed anzi proprio quanto era accaduto a Sacile gli offrì l’occasione di precisare le sue opinioni sul diritto penale di guerra, in una lettera del 14 gennaio 1916 diretta al presidente Salandra:

[…]In tempo di guerra […] soltanto le condanne capitali possono avere efficacia intimidatrice, ma nei processi contro molti imputati e del genere di quelli originati dai disordini di Sacile, gli elementi di accusa sono spesso soltanto indiziari, e perciò i tribunali militari non possono - come sarebbe salutare - concludere con esemplari condanne a morte.
E’ quindi vivamente da deplorare che l’attuale codice penale militare non conceda più, nei casi di gravi reati collettivi, la facoltà della decimazione dei reparti colpevoli, che era certamente il mezzo più efficace - in guerra - per tenere a freno i riottosi e salvaguardare la disciplina(132). È molto significativo che Cadorna, nelle sue Pagine polemiche, pubblicò un riassunto di questa lettera, ma censurò l’ultimo paragrafo(133).
Il provvedimento della decimazione consiste, infatti, nella fucilazione di un certo numero di militari estratti a sorte, appartenenti ad un reparto nel quale si sono verificati reati punibili con la pena di morte. Ma la decimazione può trovare applicazione in due tipi di casi notevolmente diversi fra loro. Un primo caso si verifica allorché le autorità militari accertano l’esistenza di un grande numero di responsabili condannandone a morte soltanto alcuni. Questo tipo di decimazione viene spesso definito «umanitario» perché - si pretende - servirebbe a risparmiare un certo numero di vite umane. (Ma nella normalità dei casi le autorità militari si trovano nella impossibilità pratica di condannare alla fucilazione mille o anche soltanto cento soldati colpevoli di un identico reato, e quindi la decimazione cosiddetta «umanitaria» offre la via per fucilarne almeno un certo numero). Il secondo tipo di decimazione, più aberrante del primo, si verifica quando le autorità militari non riescono ad individuare le singole responsabilità penali e, nel migliore dei casi, dispongono soltanto di indizi. Esse stabiliscono pertanto di inviare innanzi al plotone di esecuzione alcuni militari, magari innocenti, sol perché appartenenti al reparto nel quale i reati sono stati commessi. Questo secondo tipo di decimazione fu invocato da Cadorna a proposito dei fatti di Sacile.
Non risulta che Salandra replicasse alla lettera di Cadorna del 14 gennaio, ma quel che era accaduto nell’ottobre a proposito dell’esclusione del ricorso alla grazia sovrana costituiva un precedente assai significativo sugli orientamenti del governo in materia di diritto penale(134). La decimazione non era prevista dal codice militare, ma tale silenzio non poteva assolutamente significare autorizzazione, poiché essa contrastava in ogni caso con i principi generali del diritto(135).
La Commissione di inchiesta sui fatti di Caporetto pubblicò il resto di una circolare del 22 marzo 1916, nella quale Cadorna dichiarava che i giudici dei tribunali straordinari eludevano la responsabilità di infliggere pene di morte accordando agli imputati le attenuanti generiche. Si rendeva pertanto necessarlo - secondo Cadorna - che i comandanti, convocando i giudici, facessero comprendere ai medesimi («pur non coartando le loro coscienze e senza esercitare alcuna influenza sul loro giudizio») quali gravi conseguenze potevano derivare dalla loro abituale mitezza. Per quanto poi si atteneva ai tribunali ordinari, il generale disponeva che lo stesso inconveniente fosse «eliminato mediante una accurata scelta dei giudici», escludendo quelli che non davano «affidamento di comprendere lo spirito della legge e le esigenze disciplinari deI momento» (136).
Ancora una volta, in aprile, Cadorna tornò a lamentarsi per la persistente mitezza dei tribunali straordinari. Poi i suoi inviti alla severità ebbero termine (tranne una circolare, nell’agosto, riguardante i tribunali speciali incaricati di giudicare i soli ufficiali)(137). Si deve credere - come del resto credette la Commissione di inchiesta per i fatti di Caporetto e come a questa fu riferito da numerosi testimoni - che nella primavera del 1916 la giustizia militare cominciò ad essere molto più rigorosa (138). Lo stesso Cadorna, nel libro che scrisse a sua difesa, ammise che i tribunali erano stati indulgenti nei primi tempi della guerra, lasciando intendere che successivamente le cose erano cambiate: anche la decimazione - come vedremo - cominciò ad essere applicata su vasta scala (139).

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123_L. TROCKIJ, La mia vita, Milano 1961, p. 347.
124_Ibid., p. 349. Sulla attività militare di Trockii cfr. I. DEUTSCHER, Il profeta armato, Milano 1956, pp. 548 sgg.
125_Cfr. pp. 21 sgg. e 156 sgg.
126_L. CADORNA, Pagine polemiche cit., pp. 83-84. Cfr. anche
quanto abbiamo detto alle pp. 53 sgg.
127_Come già detto a p. 44 dal 24 maggio al 30 novembre 1915
i morti erano stati 62.000 e i feriti 170.000. Le perdite da dicembre ad aprile furono quindi notevolmente inferiori, sia in senso assoluto, sia in senso relativo, non soltanto tenendo conto dell’accresciuto numero di combattenti (dal milione circa del maggio 1915-febbraio 1916, al milione e 400.000 della fine dell’aprile 1916) ma anche delle perdite medie giornaliere: 326 morti e 893 feriti nel maggio-novembre; 98 morti e 234 feriti nel dicembre-aprile. Cfr. MINISTERO DELLA GUERRA, UFFICIO STATISTICO Statistica dello sforzo militare ecc., La forza dell’esercito cit., pp. 183-84, e Inchiesta Caporetto, pp. 438-39, tavola 33.
128 _RoccA, Vicende di guerra cit., pp. 29 e 129-33
129_ACS, Primo aiutante, b. 28, telegrammi deI Comando supremo, segreteria dei capo di stato maggiore, a firma dei gen. Porro, diretti si ministero della Guerra, del 27 dicembre 1915, nn. 1270 e 1273.
130_Ibid., telegramma dei comandante deI presidio di Sacile alla segreteria dei capo di stato maggiore, dei 30 dicembre 1915, n. 845. Sull’episodio cfr. anche E. FORCELLA-A. MONTICONE, Plotone d’esecuzione
cit., pp. 491 sgg. Per un altro caso di protesta collettiva verificatosi a quell’epoca cfr. ACS, Primo aiutante, b. 26, «Stralcio del rapporto del Comando deI 151° reggimento fanteria in data 17 gennaio 1916, ecc.». Il 17 gennaio, infatti, verso le sette deI mattino, da molti baraccamenti deI 1310 fant. (brigata Sassari) posti tra Campolongo e Cavenzano, cominciarono a levarsi grida che invocavano le licenze. Vi furono anche colluttazioni tra soldati e ufficiali. I fanti non volevano tornare in trincea prima che fossero state loro concesse le licenze.
131_Ai fini delle polemiche sulla influenza dei paese verso l’esercito va sottolineato che Cadorna conveniva sulla eventuale responsabilità di sobillatori esistenti nel paese soltanto perché il governo glielo aveva suggerito come « ipotesi ». Gli alpini ribellatisi a Sacile erano di Torino, Susa e Pinerolo. Cfr. ACS, Presidenza, b. 102 (19.4.8) fase. 24.
132_ACS, Presidenza, ibid., La lettera di Cadorna è stata parzialmente pubblicata anche in R. DE FELICE, Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari italiane nella prima meta deI 1917, in « Rivista storica del socialismo », settembre-dicembre 1963, pp. 470-71.
133_Cfr. L. CADORNA, Pagine polemiche cit., p. 92, nota 1.
134_Cfr. pp. 55-56.
135_Nel dopoguerra la riforma deI codice militare fu discussa dal. la commissione ministeriale presieduta dal sen. Berenini. Questi - per evitare che in futuro la decimazione potesse essere applicata - propose di introdurre nel nuovo codice una norma che vietasse ai bandi militari emanati dai comandi di derogare alle disposizioni generali del diritto penale vigente. Il gen. Morrone, ex-ministro della Guerra, propose a sua volta l’inclusione di un articolo che vietasse in maniera assoluta ed esplicita la decimazione e prevedesse adeguate punizioni a carico di quei comandanti che l’avessero ordinata. Il ten. gen. D. A. Tommasi, avvocato militare, spiegò che sarebbe stato sufficiente integrare l’art. 168 deI codice militare vigente che puniva l’abuso di autorità. Infatti, disse il Tommasi, l’art. 168 aveva fino ad allora contemplato - stranamente - soltanto il caso delle lesioni e non anche quello dell’omicidio commesso per abuso di autorità. «Non si comprende - aggiunse - che la repressione di un reato collettivo si effettui col sistema della decimazione, solo perché non si riescano a individuare le singole penali responsabilità». Cfr. le pp. 33 e 287-88 degli atti della commissione ministeriale già citati a p. 53 (nota 129).
136_Inchiesta Caporetto, II, p. 366.
137_Cfr. l’elenco delle circolari dei Comando supremo sulla giustizia militare a p. 54 (nota 131).
138_Cfr. Inchiesta Caporetto, II pp. 366-67.
139_Cfr. L. CADORNA, Pagine polemiche cit., pp. 91 sgg.

da P.Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol2° pp.329 e segg