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Sulla prima guerra mondiale

Le licenze la propaganda disfattista: l'inizio della frattura tra i combattenti e il paese

1. Dopo la quarta battaglia dell’Isonzo, terminata ai primi di dicembre, le operazioni militari subirono un rallentamento. Il gen. Cadorna approfittò della cattiva stagione per riordinare l’esercito in vista della progettata offensiva primaverile. Le truppe, a turno, andarono in licenza per quindici giorni. Fino all’inverno i soldati avevano cercato di non pensare molto alle famiglie e agli interessi lasciati in sospeso(58). Nell’imminenza del sia pur breve ritorno, era inevitabile che essi riandassero col pensiero ai parenti, agli amici, e che i quindici giorni di licenza si caricassero di innumerevoli promesse. I soldati pensavano ai discorsi che avrebbero fatti, alle accoglienze che avrebbero ricevute. Avevano combattuto contro l’austriaco, avevano partecipato alle più tremende battaglie, e ritenevano che in città, in paese, sarebbero stati considerati e rispettati come dei valorosi o addirittura degli eroi. Non pensavano che la licenza potesse riservare amare sorprese.
Prima della partenza i soldati ricevevano l’ordine di non rivelare il luogo di residenza del reparto, e magari il consiglio di non parlare affatto della guerra. «E allora - commentò il prete-soldato Lorenzini - di che cosa si deve parlare? Si fa la guerra e non se ne deve parlare! Perché? Forse perché le cose non vanno tanto bene? E che colpa ne abbiamo noi?».
E poi, dopo aver ascoltato le raccomandazioni, i soldati si assoggettavano a varie pratiche igieniche, al bagno, allo spidocchiamento, alla visita medica, all’esame della divisa, operazioni assai consigliabili, ma che avevano il difetto di ritardare la partenza e di suscitare irritazione. «Se tutte queste funzioni le studiassero apposta per provocare gli improperi dei soldati non ci si riuscirebbe meglio», scrisse sempre quel prete-soldato(60). Ma il lamentarsi per queste contrarietà serviva forse soltanto a dissimulare l’inquietudine suscitata dall’imminente viaggio. Più spiacevoli, piuttosto, dovevano risultare gli scomodi e lenti viaggi nelle tradotte, o i frequenti controlli compiuti dai carabinieri sui fogli di licenza, ai quali tanto spesso mancava una firma o un timbro regolamentate(61).
Dopo il viaggio, finalmente, il soldato ritrovava la famiglia, le amicizie, il paese natio dove la vita di sempre scorreva distante dalle tribolazioni della trincea. Ma ben difficilmente ritrovava la serenità. D’improvviso, infatti, il soldato comprendeva che la vita normale era questa, e non quella di «lassù». Rivedere la fidanzata, la moglie, i figli, il proprio ambiente di lavoro significava ritrovare la personalità perduta e con ciò compromettere l’opera di adattamento faticosamente compiuta nei lunghi periodi di trincea. La crisi aveva luogo in ogni caso, sia quando l’ambiente familiare era sereno, sia quando esso era invece inquieto per motivi economici o affettivi. Anche l’evento più lieto poteva costituire motivo di turbamento:
la nascita o i progressi di un figlio, dal quale era necessario separarsi, o la fortuna del proprio commercio, affidato in mani altrui. A quanto risulta dalla maggior parte delle testimonianze, tuttavia, le più appariscenti ragioni del disagio provato dal soldato in licenza erano altre.
Le persone che egli incontrava sapevano molto poco della guerra. I giornali fornivano descrizioni idilliache e le più veritiere notizie diffuse dai soldati tornati nelle retrovie non erano state capaci di modificare le idee correnti, Gli ufficiali in licenza raccontarono spesso che il paese non soltanto non sapeva molto delle reali condizioni dei combattenti, ma cercava anche di non saperne troppo, come se, per una forma di autodifesa, avesse avuto paura della verità. Nei diari e nei libri di ricordi i combattenti si lamentarono spesso della incomprensione dalla quale si sentivano circondati. Come ha detto il Ghisalberti:

Quando si veniva in licenza e ci si sentiva domandare, affettuosamente, garbatamente, da parenti ed amici: «Ma a Trieste quando ci arrivate? Quando prendete Trento? Cosa state facendo?» si aveva l’impressione che il Paese non si accorgesse dello sforzo enorme che si stava compiendo. Il Paese pareva avere scarsa coscienza, con tutta la retorica che straripava sui giornali, delle difficoltà reali della guerra(62). Ma soprattutto destò collera e sdegno constatare che nelle città e nei paesi erano rimasti tanti giovani, esonerati dal servizio militare, i così detti «imboscati », ignari delle tragedie della guerra ed anzi sempre più bramosi di godere gli agi e i divertimenti che la società offriva loro:

La licenza è trascorsa in un baleno-scrisse il Lorenzini-. Condita da un malumore straordinario e dall’assillo di dover tornare quassù, ma più dallo schifo e dalla nausea provocata da quelli che la guerra la fanno fare agli altri, e menano una vita da rivoltare lo stomaco a un ottentotto. [. . .] La vita delle città e dei paesi nonché cambiare abitudini si è trasformata in peggio.
E’ cresciuto il lusso, è aumentata la smania dei divertimenti; i cinematografi sono pieni zeppi, lunghe teorie di uomini e di donne si accalcano allo sportello dei biglietti a disputarsi l’entrata al teatro. Dovunque gente che si affanna a godere, a divertirsi, dando prova di non comprendere affatto la gravità del momento, né di darsi alcun pensiero per chi conduce una vita di patimenti inenarrabili(63).

Né è da credere che il prete-soldato Lorenzini fosse il solo a scagliarsi contro i costumi degenerati, forse perché animato da zelo sacerdotale. I militari che protestarono contro i «civili», così pronti a godere ed a divertirsi furono invece moltissimi(64). Quando tornarono al fronte, i soldati si tormentarono all’idea che le loro donne si rallegrassero in compagnia degli imboscati(65). «A Padova-scrisse nel novembre 1915 G. De Vita-ho visto tanti di quei giovani godersela nei teatri e nei caffè che mi veniva voglia di prenderli a pugni e di odiarli più degli austriaci»(66).
I fanti non potevano essere così spassionati nei loro giudizi, da rendersi conto che la vita del paese doveva necessariamente svolgersi come di consueto e che anzi l’eccitazione da essi notata nelle vie costituiva un sintomo inevitabile della guerra. Un sintomo, in altre parole, non soltanto dei facili guadagni, ma anche delle trepidazioni e delle incertezze da tutti vissute, che imprimevano alla vita quotidiana il segno della provvisorietà. Come scrisse Adolfo Omodeo venti anni più tardi: «Doveva continuare la vita d’ogni giorno, anche più eccitata, perché il paese producesse, lavorasse, sentisse il meno possibile il lutto e la tragedia che l’avrebbe paralizzato. Era quella la febbre che accompagna il male, lo segnala, ma aiuta anche a superarlo. Ed era stata in parte favorita politicamente, per reagire all’impressionabilità del pubblico, e concorrevano a diffonderla nelle retrovie e durante le licenze gli stessi combattenti con la loro sete insaziata di vita. Era l’egoismo primordiale della vita»(67).

2. Improvvisamente aggrediti da questa realtà, turbati dagli impulsi contraddittori che le licenze suscitavano in loro, i soldati accettarono il ritorno in trincea abbandonandosi al disprezzo verso il paese: spregiando dunque proprio quella società per la cui affermazione, in sostanza, essi stavano combattendo.
Nell’inverno dal ‘15 al ‘16 - scrisse Malaparte - quando il popolo delle trincee cominciò a rifluire -per quindici giorni- nell’interno del paese, i primi segni di questa esplosione di malvagio rancore contro chi non conosceva il fango, i pidocchi e il sangue delle prime linee, apparvero in tutta la loro impressionante gravità. Durante «la prima licenza invernale» (chi saprà, un giorno, esprimere tutta l’immensa tragedia della prima licenza invernale?) i fanti impararono a odiare il così detto «paese»(68).

La contrapposizione tra esercito e paese, testimoniata da innumerevoli lettere, diari, ricordi, fu accentuata dalla tendenza, che tutti gli eserciti manifestano sempre nel corso delle lunghe guerre, di chiudersi in se stessi, di acquistare caratteristiche «corporative». Quando il soldato andava in licenza si serviva di espressioni abituali, come «vado dai miei», «torno a casa», ma con dolorosa ironia diceva anche: «vado in Italia», come se il fronte e la trincea non fossero stati anch’essi Italia(69). L’Italia era alle spalle, lontana, estranea, indifferente. Eugenio Garrone la contemplava sconsolato dall’alto dei monti:

«Dalla posizione dove siamo vedo sfumare lontano, oltre i monti degradanti lentamente, la pianura vicentina: stamattina seduto solo sul prato in un muto raccoglimento di me stesso verso tutti voi cari, ho guardato a lungo quella pianura, e ho veduto città spensierate, uomini e donne dimentichi di noi, indifferenti a quanto si svolge quassù, e mi sono sentito chiudere forte forte il cuore di sgomento»(70).

Gli intellettuali interventisti che avevano immaginato la guerra come una prova rinnovatrice dell’intera società, dopo aver assistito all’insuccesso militare, credettero di assistere anche ad un insuccesso «civile» della guerra. Videro che il paese stava tradendo il suo esercito. Cercarono allora di alimentare la loro fede idealizzando il puro, nobile, autentico mondo delle trincee: da esse - dissero - stava germinando la società nuova per la quale era giusto continuare a combattere. La logica di un tale ragionamento condusse spesso a singolari rovesciamenti di valori: la vita nelle città sarebbe dovuta apparire più attraente che non quella delle trincee, eppure molti scoprirono in loro stessi una vera «nostalgia del fronte». In trincea, sotto i tiri del nemico, l’esistenza di ognuno era messa di continuo in pericolo, mentre nelle città quei pericoli non esistevano: eppure ad alcuni parve vero proprio l’opposto. «Qui c’è morte, lassù c’è vita», disse durante la licenza un ufficiale che rimase poi ucciso in battaglia(71).
Ma la grande massa dei fanti tornarono al fronte pensando di riavvicinarsi alla morte, non alla vita. Il 10 febbraio 1916 don Giulio De Rossi, direttore del «Prete al campo», bollettino quindicinale dei cappellani militari, scrisse esplicitamente che «tutti» i soldati reduci dalle licenze recavano in loro «una diminuita resistenza alla lotta, alla fatica, all’obbedienza vigile e pronta al dovere, al dovere duro della guerra»(72).
Il gen. Cadorna non accusò i «disfattisti» residenti nel paese di aver minato il morale delle truppe, ma al contrario redarguì queste ultime per il comportamento tenuto durante le licenze. Assai indicativa, a tale riguardo, risulta la circolare inviata il 12 gennaio 1916 dal comandante supremo a tutti i comandi di reggimento e, per conoscenza, al presidente del Consiglio, al ministro della Guerra e al comandante generale dell’arma dei carabinieri. Cadorna dichiarava che, nonostante gli espressi divieti già fatti:
«Ho dovuto dolorosamente constatare che vi sono molti pusillanimi ed incoscienti i quali, recandosi in licenza, anziché diffondere la fiducia nel successo della nostra impresa, come vorrebbe il loro onore di soldati e il loro più sacro dovere verso la Patria, compiono nel paese una vergognosa opera di abbattimento e di sconforto che attesta del loro basso livello morale. I più accaniti sono certamente quelli che si sono peggio comportati di fronte al nemico. Spargono inconsulte voci di insormontabili difficoltà, di perdite enormi subite; insinuano la sfiducia nei capi, esagerano le sofferenze della vita di trincea, raccontano che il colera e il tifo infieriscono fra le truppe, ecc. Tali notizie false od esagerate, anche se non propalate in pubblico, ma divulgate fra i parenti e gli amici, dilagano rapidamente e deprimono, specialmente nella parte meno colta della popolazione, quello spirito pubblico che una saggia preparazione civile ha saputo mantenere finora così alto e fiducioso nella vittoria delle nostre armi»(73).

3. Quest’ultima frase della circolare induce a qualche riflessione: conteneva un nuovo implicito appello alle autorità politiche perché potenziassero l’opera di propaganda all’interno? Può darsi, ma conteneva anche un nuovo esplicito riconoscimento del fatto che lo spirito del paese si manteneva sostanzialmente buono, mentre gli elementi di perturbazione provenivano dal fronte. Come nel settembre 1915 la propalazione di notizie allarmistiche era stata addebitata ai racconti dei feriti e alle lettere dei combattenti, così adesso la stessa colpa era attribuita ai soldati in licenza(74). Benché si lamentasse del neutralismo serpeggiante nel paese (75), Cadorna si asteneva dal rivolgere contro di esso quelle accuse che avrebbe poi rivolte - come vedremo - nel 1917. I soldati subivano invece il rimprovero di aver diffuso voci false o esagerate sulle perdite, gli orrori delle trincee e le epidemie. Ma erano davvero tanto fantastiche quelle voci? Alcune unità erano state decimate dal colera e G. M. Trevelyan aveva assistito a scene di morte degne di un’allegoria di Chaucer(76). Perfino Cadorna, proprio in quei giorni, disse ai familiari che si trattava di «una guerra infame», e che durante l’ultima offensiva, in soli 50 giorni, l’esercito aveva perduto circa 100 mila uomini oltre agli ammalati(77). «Chi avrebbe immaginato – scrisse - una catastrofe di questo genere e così lunga?»(78).
Nella citata circolare del 12 gennaio Cadorna avvertì che sarebbero state comminate punizioni severissime a carico di chi fosse stato riconosciuto colpevole di aver diffuso «notizie esagerate o comunque tenuto discorsi inopportuni», e che già erano in corso provvedimenti di estremo rigore nei riguardi di qualche ufficiale e di militari di truppa. Concluse minacciando: «Ma se continuassi a constatare che gli ammonimenti e le repressioni non sono sufficienti, io non esiterò a prendere il provvedimento di sospendere le licenze». La minaccia era inattuabile ed infatti non fu messa in atto. Alcuni anni più tardi il gen. Capello dichiarò che essa era stata fatta da «qualche semplicista scettico e iniquo»(79).
Il problema della crisi vissuta dal soldato durante la licenza invernale rimase sostanzialmente irrisolto. In parte era irrisolvibile, perché la licenza produceva una inevitabile interruzione al processo di adattamento alla guerra. In parte trovava un correttivo nell’automatica ripresa di questo processo: un colonnello riferì alla Commissione d’inchiesta per Caporetto che «dopo pochi giorni di trincea i soldati tornavano tranquilli»(80). Ciò nonostante le licenze lasciavano il loro segno e il soldato ritornava al fronte afflitto da tormenti grandi e meno grandi ai quali, almeno a questi ultimi, si sarebbe potuto tentare di porre rimedio. Fra l’altro, nell’esercito, vigeva in generale un severo regime di austerità, che produceva il pernicioso effetto di accentuare la tetraggine dell’ambiente. Ancora nell’estate del 1917 Luigi Barzini si lamentò che nulla allietasse, nulla interrompesse la vita di fatica del soldato. Nell’esercito italiano non erano stati organizzati, come negli eserciti francese e inglese, spettacoli e feste per le truppe, ai quali ufficiali e soldati potessero partecipare dimenticando, almeno per un po’, la guerra in corso. Barzini citava casi nei quali, al fronte, era stato vietato agli ufficiali di suonare e cantare «per rispetto ai morti». Sull’Isonzo tutte le cerimonie e tutti gli onori erano per i morti, salvo qualche premiazione, e questo - diceva Barbini - non bastava certo per incoraggiare a morire (81). Bastava, invece, per rendere più odioso il confronto che i fanti facevano al ritorno dalle licenze tra la loro condizione e quella dei cittadini.
Proprio nel corso delle licenze altri fatti singolari avevano contribuito ad esasperare questo confronto. Spesso un ordine dei comandi vietava al soldato l’ingresso in un caffè, o gli proibiva di uscire in compagnia di donne che non fossero la madre, la sorella o la moglie legittima. Raccontò Malaparte che non erano rari i casi di ufficiali e soldati fermati in mezzo alla strada e immancabilmente puniti perché colpevoli di essersi mostrati in pubblico in compagnia della fidanzata. «Fidanzata» sottolineò Malaparte, soggiungendo: «Perché di una amante non era il caso di parlare. Per questo ci sono i postriboli, spiegavano i superiori inabili alle fatiche di guerra e preoccupati di difendere la morale pubblica nelle città - ma ottimi patrioti, che diamine!»(82).
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58.-Cfr. A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 101.
59.-E. LORENZINI, La guerra e i Preti Soldati cit., pp. 36-37.
60.-Ibid., p. 38.
61.-Sulle complicazioni dei viaggi con le tradotte cfr. TENENTE ANONIMO, Glorie e miserie della trincea, fronte italiano 1915-1918, Milano 1933, pp. 151-59.
62.-ISTITUTO PER LA STORTA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, Atti del XLI congresso cit., p. 498.
63.-E. LORENZINI, La guerra e i Preti Soldati cit., p. 63.
64.-Cfr., tra gli altri, P. JAHIER, Con me e con gli alpini, Roma 1919, pp. 121-26.
65.-Cfr. tra gli altri V. LENTINI, Pezzo, fuoco!, Milano 1934, p. 81 e pp. 125-26 e A. SOFFICI, Le lettere di Cadorna, in Opere, vol. III, o. 465.
66.-G. DE VITA, Memorie di G. d. V. cit., p. 75 (alla data del 14 novembre 1915), cit. anche in A. OMODEO, Momenti della vita di guerra cit., p. 318.
67.-ibidem
68.C. MALAPARTE, La rivolta dei santi maledetti cit., pp. 65-66. Sull’argomento cfr. anche Inchiesta Caporetto, voi. II, p. 415
69. A. FRESCURA, Diario di un imboscato, Bologna s.d., p. 135, (alla data del 9 novembre 1916).
70.G. e E. GARRONE, Ascensione eroica cit., p. 121 (alla data 16 settembre 1916).
71.B. BELOTTI, L’avvocato Carlo Freguglia, Medaglia d’oro, Milano 1927, p. 15.
72.G. DE Rossi, Dopo le licenze in «Il Prete al campo », 1° febbraio 1916.
73.Circolare del Comando supremo, sezione disciplina, del 12 gennaio 1916, prot. n. 402, riprodotta in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 497-98.
74.Cfr. Cap. I, par. 9.
75.Cfr. L. CADORNA, Lettere famigliari cit., p. 122 (lettera del 13 settembre 1915).
76.Cfr. pp. 47 e 63-64.
77.CADORNA, Lettere famigliari cis., p. 135 (Lettera del 17 dicembre 1915 alla figlia Carla).
78.Ibid. (Lettera del 17 gennaio 1916 alla sorella Maria).
79.L.CAPELLO, Note di guerra cit., voI. I, p. 277..
80.Inchiesta Caporetto, vol. Il, p. 500.
81.MILANO, Risorgimento, n. 16775, Lettera di L. Barzini a L. Albertini, dell’estate 1917, lasciata interrotta. Riprodotta in La guerra 1914-1918, Documenti di storia contemporanea, a cura di L. MARCHETTI, Milano 1965, pp. 221-24.
82.C. MALAPARTE, La rivolta dei santi maledetti cit., p. 72. Per un diverso esempio di «austerità» durante le licenze cfr. anche M. QUAGLIA, La guerra del fante, Milano 1934, pp. 167-68. Sulla condizione di abbrutimento del soldato al ritorno dalla licenza cfr. E. LORENZINI, La guerra e i Preti Soldati cit., p. 39.

da Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol primo