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Su Jugoslavia esecuzioni a Roma Renicci di Anghiari

I campi italiani

Le esecuzioni capitali a Roma e la frontiera orientale (1939 – 1943)

a cura di Augusto Pompeo

L'elenco dei caduti slavi a Forte Bravetta

Forte Bravetta è un edificio militare situato alla periferia di Roma, nei pressi della via Aurelia Antica, immerso in un’area estesa e ricca di vegetazione. Fu costruito alla fine del secolo scorso assieme ad altri edifici dello stesso tipo dalle autorità militari che vollero così circondare la città con una linea fortificata. Durante la seconda guerra mondiale, nei nove mesi di occupazione tedesca della città, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, all’interno del forte vennero eseguite le sentenze capitali pronunciate dal tribunale di campo degli occupanti, il Feldgericht.

Appena varcato il cancello d’entrata, nel piazzale d’accesso all’edificio, sul terrapieno che veniva usato per le esecuzioni, dopo la Liberazione è stata posta una lapide che ricorda i nomi di 74 caduti. Forte Bravetta rimane, per questo, un luogo – simbolo della Resistenza romana.

Sullo stesso "terrapieno" non finirono i loro giorni solo gli oppositori degli occupanti tedeschi e dei loro alleati nei nove mesi successivi all’armistizio: il vecchio forte fin dal 1932 fu adibito a luogo di esecuzione delle condanne capitali emesse dai tribunali che giudicavano a Roma e fu utilizzato per lo stesso scopo anche dopo la Liberazione.

Una recente indagine ha accertato 115 esecuzioni avvenute a Forte Bravetta dal 1932 al 1945. Il presente lavoro intende occuparsi di alcune condanne eseguite nella capitale dal 1939 all’8 settembre 1943, vale a dire dall’anno dello scoppio del secondo conflitto mondiale fino alla capitolazione dell’Italia.

Nel periodo considerato le sentenze di morte eseguite furono complessivamente 35, delle quali una soltanto risulta pronunciata dalla magistratura ordinaria : le altre sentenze capitali furono emesse dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, il "Tribunale di Mussolini".

La prima cosa che colpisce nel leggere i pronunciamenti del TSDS degli stessi anni è il luogo di origine dei condannati: 2 di questi erano croati, 18 cittadini italiani nati nelle province di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Questi ultimi erano in larga maggioranza "alloglotti" e "slavofili di sentimenti ostili all’Italia", come si legge nei rapporti della polizia allegati alla documentazione processuale. I venti furono processati per aver commesso reati connessi allo stato di guerra (sabotaggio, spionaggio, diserzione e insurrezione armata) in territorio italiano, dove il TSDS esercitava la sua giurisdizione.

I processi furono celebrati nell’aula IV del Palazzo di Giustizia di Roma, l’aula in cui fu sottoposto a giudizio un numero altissimo di oppositori del fascismo dal 1926 al 1943.

Durante il giudizio gli imputati venivano trattenuti nel carcere di Regina Coeli, che, come ai nostri giorni, era destinato ai detenuti sottoposti a procedimento e in attesa di sentenza. Le carte d’archivio relative ai processi si trovano nell’Archivio Centrale dello Stato, quelle riguardanti la permanenza in carcere dei condannati sono conservate nell’Archivio di Stato di Roma, i due maggiori archivi romani.

L’Italia è terra di spie prima ancora della sua entrata in guerra: dalla seconda metà degli anni ‘30 la politica estera fascista suscita timori e preoccupazioni nella G. Bretagna e negli stati confinanti che inviano in Italia agenti segreti con il compito di procurare informazioni di carattere militare: nella penisola si combatte una guerra silenziosa fra il controspionaggio italiano e i "servizi" segreti britannico, francese e iugoslavo molto prima che si scontrino i rispettivi eserciti. Fin da quando l’Italia fascista compie le sue prime azioni di guerra in Etiopia e in Spagna le nazioni a lei "ostili" studiano le sue difese costiere, la dislocazione dei suoi cantieri navali e dei suoi impianti industriali. Inizia una fitta corrispondenza in codice: ai consolati e alle ambasciate delle principali città europee arriva una grande quantità di lettere scritte in "inchiostro simpatico" che, una volta giunte a destinazione, vengono sottoposte a trattamento chimico. Le missive consistono spesso in "questionari" predisposti dai capi dei servizi contenenti domande precise su alcuni aspetti dell’organizzazione militare italiana. E’ la guerra segreta, condotta da soldati particolari, arruolati in zone di confine, attratti dai premi in danaro, a volte reclutati in ambienti cosmopoliti e, spesso, fuorusciti spinti da motivazioni ideologiche. I responsabili dei servizi stranieri reclutano una persona, di norma di lingua italiana, cui affidano una missione da attuarsi nella penisola anche con l’ausilio, se le circostanze lo richiederanno, di altri agenti che egli stesso provvederà a reclutare e che formeranno una "rete" di spie in contatto diretto unicamente con il "capo" che li ha avvicinati.

Le forze armate britanniche non si limitano a reclutare spie per carpire notizie provenienti dagli alti comandi; spesso addestrano nelle loro basi unità di combattimento formate da guastatori che verranno paracadutati o sbarcati sulle coste italiane per compiere azioni di sabotaggio.

I servizi britannici cercano informazioni sull’arma italiana che temono maggiormente, la marina; gli iugoslavi, invece, si attendono (non a torto) un attacco alla loro frontiera occidentale e controllano i movimenti delle truppe italiane in quel settore.

L’Intelligence Service ha i suoi centri in Vienna, Marsiglia, Istanbul dove sono dirette le informazioni provenienti dall’Italia, gli iugoslavi si affidano a cittadini italiani "allogeni" che varcano abitualmente la frontiera italo–iugoslava.

Le azioni di intelligence si intensificano nel 1942 mentre infuria la battaglia decisiva in Africa settentrionale e l’aviazione britannica attacca le navi cariche di rifornimenti provenienti dalla penisola.

Dopo l’invasione della Jugoslavia, l’esercito italiano si trova a fronteggiare un nemico nuovo: le bande partigiane che si organizzano con il sostegno della popolazione e che impegneranno severamente le truppe occupanti fino al termine del conflitto. Le vicende della guerra partigiana nella penisola balcanica sono note: meno conosciuti gli episodi di rivolta armata all’interno del territorio italiano nella parte orientale delle province di Gorizia, Trieste e Fiume da parte di bande "autoctone" collegate con le formazioni croate e slovene.

Con la costituzione della nuova provincia di Lubiana e l’abolizione del confine fissato dalla I guerra mondiale, l’area ad est di Gorizia e Trieste (fino alla parte nord - orientale della Slovenia occupata dai tedeschi) ritrova l’unità territoriale perduta nel 1919 e la Resistenza slovena, che ha il suo centro politico e militare clandestino a Lubiana, si estende rapidamente nei centri agricoli interni al di là della vecchia frontiera abitati, in parte cospicua, da "alloglotti". La stessa cosa avviene nell’Istria meridionale, a Pola e a Fiume, punti di riferimento e crocevia della resistenza croata diretta politicamente e militarmente da Zagabria.

L’irredentismo e il ribellismo slavo della Venezia Giulia e dell’Istria, che hanno da sempre costituito un problema per le autorità italiane in tempo di pace, durante il conflitto diventano lotta armata fin dai primi mesi del 1942, in un momento in cui le forze antifasciste non trovano ancora le condizioni per organizzare la Resistenza nel resto della penisola.

Un ex ufficiale della marina austro - ungarica

Nella prima metà degli anni Trenta l’Austria era stretta dalla pesante tutela di due stati che avrebbero scatenato un conflitto senza precedenti nella storia europea. Nella sua capitale, Vienna, in certi ambienti, erano forti la suggestione e il ricordo dell’antico impero che, fino a pochi anni prima, si estendeva dal centro dell’Europa alla penisola balcanica. Ed era viva la memoria dei fasti passati in chi aveva combattuto durante la grande guerre soprattutto nella marina imperiale, che reclutava i suoi ufficiali nelle élites delle numerose nazioni dell’Impero. Gli ufficiali della marina austro–ungarica, a loro volta, erano uniti da un forte spirito di corpo e da un alto senso di appartenenza. Appare del tutto naturale, quindi, che, alla fine del 1935, l’ex commissario della marina da guerra asburgica Rodolfo Koren, al servizio dell’IS, ricevuto l’incarico di costituire una rete di agenti con lo scopo di fornire informazioni sulla consistenza e i movimenti della flotta italiana, scegliesse i suoi collaboratori fra i suoi vecchi compagni d’arme. Koren era triestino di nascita ma viveva a Vienna e, dopo il 1919, aveva scelto la cittadinanza austriaca; il suo referente presso il Consolato britannico nella capitale era un addetto all’ufficio passaporti, tale Kendrich (non meglio identificato).

Gli altri ex ufficiali e sottufficiali della marina austriaca con cui l’ex commissario formò la rete richiesta risiedevano in Italia o avevano rapporti personali e di affari nel nostro paese.

Il primo agente a entrare in azione fu Ugo Ritter, fiumano, cittadino italiano, che agì a Trieste da dove, con lo pseudonimo di "Paul", inviò regolarmente a Vienna lettere scritte con "inchiostro simpatico" seguendo un "questionario" compilato nella capitale austriaca.

Alla fine del 1936 furono reclutati Antonio Giuseppe Scarpa ("Aldo"), triestino, cittadino italiano, che operò inizialmente a La Spezia, ed Ezio Radossi ("Gino"), anche lui triestino e cittadino italiano, che fu inviato a Napoli.

All’inizio del 1937 entrò a far parte della rete Walter Treu ("Herman") nato a Melk (Austria), cittadino austriaco, che operò a Napoli, poi a Taranto e successivamente in Sicilia. Infine, nel 1938, fu ingaggiato Osvaldo Salvini Pawen de Melesburg ("Theo"), nativo di Bolzano, cittadino tedesco che svolse la sua attività a Roma con spostamenti a Trieste, Pola, Venezia, Ancona, Napoli, Civitavecchia e Cagliari.

A ognuno fu corrisposto un compenso mensile (da un minimo di 1000 a un massimo di 3000 lire).

La rete agiva soprattutto nei principali approdi militari e raccoglieva notizie sulle difese portuali, sui movimenti di truppe destinate a sostenere l’esercito nazionalista in Spagna, dove era in corso la guerra civile, sulle fabbriche di munizioni, sui cantieri.

"Theo", in particolare, che agiva a Roma ma che, come si è detto, si spostava frequentemente in altre località e che giustificò la sua presenza nella capitale con la necessità di effettuare "ricerche genealogiche sulla sua famiglia d’origine", aveva ricevuto l’incarico di fornire informazioni sul morale e sullo "spirito pubblico" della popolazione.

E proprio da Roma partì l’operazione condotta dai Carabinieri che portò alla scoperta dell’intera rete e all’arresto di tutti i suoi componenti, a eccezione del suo capo, Rodolfo Koren.

Durante il processo particolarmente grave risultò ai giudici la posizione di Antonio Giuseppe Scarpa.

Questi durante la I guerra mondiale si era distinto in valorose azioni di guerra contro l’Italia, come viene sottolineato nelle motivazioni della sentenza. Dopo la fine del conflitto, divenuto cittadino italiano, entrò nella marina italiana con il grado di tenente di vascello e partecipò, con "incarichi di rilievo" alla guerra d’Etiopia. Nell’autunno del 1936 era in servizio sul cacciatorpediniere "Rossarol" a La Spezia; durante una licenza a Trieste fu avvicinato da Ugo Ritter che lo convinse a entrare nella rete. Fornì inizialmente notizie riguardanti i paramine di cui erano provviste le cacciatorpediniere italiane. Congedato nell’aprile del 1937 si trasferì a Palermo da dove continuò a inviare informazioni a Vienna.

Nel dicembre 1937 chiese e ottenne di essere riammesso in servizio nella Marina italiana e fu inviato ad Augusta, dove svolse funzioni di sorveglianza dei lavori di costruzione degli edifici in corso nella base dei sommergibili in quella città. Dalla città siciliana inviò informazioni dettagliate sulla costruzione e sull’armamento dei sommergibili italiani di grande interesse per gli agenti britannici.

Nel corso dell’istruttoria ammise di aver spedito a Vienna 27 questionari: 3 da La Spezia, 2 da Palermo, i rimanenti da Augusta.

Il collegio giudicante considerò un’aggravante la posizione di Scarpa in quanto ufficiale della Regia marina e lo condannò alla degradazione e alla morte il 28 febbraio 1938, mentre gli altri imputati furono condannati a pene detentive: Salvini e Treu a 30 anni di carcere, Radossi e Ritter all’ergastolo.

L’esecuzione avvenne il 6 marzo 1939 a opera di un plotone d’esecuzione della Marina dopo che un capitano di fregata ebbe letto la sentenza.

Antonio Giuseppe non morì giovanissimo (era nato nel 1884); la giovinezza trascorsa nella marina austro–ungarica e il clima culturale "mitteleuropeo" di Trieste forse influenzarono le sue scelte. Alcuni aspetti della sua vita privata, che si possono apprendere dalla lettura della "cartella biografica" inserta nel fascicolo della divisione VI del Ministero di Grazia e Giustizia, rivelano un ambiente familiare indubbiamente "cosmopolita": la madre, di cui non si conosce la nazionalità, si chiamava Massimiliana Vilitochitsch, la moglie, Eugenia Iulpatoff, era russa, la figlia Inna con la quale chiese di poter corrispondere, risiedeva a New York.

Mentre alla periferia di Roma si concludeva drammaticamente la vicenda dell’ex ufficiale austriaco, nel resto d’Europa soffiavano minacciosi i venti di guerra: il I settembre dello stesso anno le armate della Wermacht avrebbero varcato il confine polacco.

Un nazionalista croato

Il 4 giugno 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania nazista che ha riportato sul campo successi militari che appaiono decisivi.

Inizialmente il teatro di operazioni è costituito, per l’esercito italiano, dal Mediterraneo, dall’Africa settentrionale e, dopo il 28 ottobre, dalla Grecia.

Le coste e i porti italiani sono fondamentali per l’economia del conflitto: da lì partono e trovano rifugio le navi cariche di truppe e rifornimenti. In mare aperto, fin dall’inizio delle ostilità, infuria la guerra dei convogli: i caccia britannici attaccano con frequenza le navi italiane dirette ai fronti greco e africano, mentre l’aviazione italiana cerca di ostacolare la navigazione inglese fra Gibilterra, Malta e Alessandria d’Egitto. Particolarmente vulnerabili appaiono le navi italiane da trasporto non sufficientemente protette dall’aviazione. I mercantili italiani trovano spesso riparo e rifornimento anche nei porti neutrali della Jugoslavia, non ancora attaccata dalle truppe dell’Asse che continuano a essere il naturale punto di arrivo delle merci provenienti dall’Europa del centro e dell’est. Gli inglesi non possono compiere azioni di guerra in acque neutrali con i loro aerei; lo fanno con la loro Special Force.

Il 26 Febbraio 1941, prima dell’inizio delle ostilità con la Jugoslavia, una mina magnetica provoca l'affondamento a Strozanac, presso Spalato del piroscafo italiano "Senio" addetto all'industria bellica. Precedentemente era stata danneggiata la nave tedesca "Maritza". Le indagini svolte dalle autorità iugoslave su sollecitazione del consolato italiano non approdano a nulla. L’inchiesta viene riaperta subito dopo l’occupazione italiana della Dalmazia e porta alla scoperta di un’organizzazione nazionalista iugoslava diretta da Josip Rezler, che non viene rintracciato dalla polizia italiana. Del gruppo, collegato con l’IS, fanno parte Milos Knezevic, assieme a Stevo Kukolj e Vladimiro Palagina, che vengono arrestati nel giugno del 1941. I tre dopo i primi interrogatori confessano e forniscono notizie anche sul tipo di ordigni usati: "bombe di forma sferica composte da un cilindro contenente una sostanza chimica... che combinandosi con l’acqua liberava e consentiva al percussore a molla di battere contro il detonatore". I sabotatori confessano di essersi avvicinati alla nave in barca e di aver sistemato l’ordigno la notte precedente l’esplosione. Il referente inglese risulta essere tale Hudson o Hydson. I compensi dell’IS per le azioni di sabotaggio ammontano a circa 5000 dinari ciascun componente il commando. I giudici condannano Milos Knezevic a morte, gli altri due a pene di 30 e 26 anni, per "azioni belliche contro l'Italia". L’esecuzione del croato avviene il 28 ottobre 1941 dopo che le truppe italiane e tedesche hanno dato un nuovo assetto politico e amministrativo alla Jugoslavia completamente occupata quasi senza resistenza da parte dell’esercito di re Pietro. Nel carteggio processuale, per definire la patria di origine degli imputati, si usa il termine "ex Jugoslavia".

La rete Grzina

Nei primi mesi del 1941 la fragile neutralità della Jugoslavia sta per essere interrotta da un’invasione attesa e annunciata.

Fra S. Daniele del Carso, Postumia, Vipacco, Villa del Nevoso e Fiume viaggiano truppe a cavallo e automezzi militari, si installano alloggiamenti e caserme, si attestano truppe; negli aeroporti di Monfalcone e Campoformio atterrano numerosi bombardieri italiani e caccia tedeschi. Gli iugoslavi controllano i continui e minacciosi movimenti delle truppe italiane e rafforzano le loro difese lungo le vie d’accesso alla Slovenia e alla Croazia. Dai posti di guardia lungo il confine finanzieri e "militi confinari" italiani osservano ad occhio nudo i nidi di mitragliatrici "shoda" e le caserme dei "graniciari".

Le popolazioni civili che vivono al ridosso del pericoloso confine, in Italia e in Jugoslavia, continuano la vita di sempre: hanno mantenuto legami affettivi e di affari nell’una e nell’altra parte. I "frontalieri" entrano ed escono dai due stati attraverso i confini ufficiali e percorrono strade impervie che solo i contrabbandieri conoscono: nelle osterie di confine si commercia in cavalli, generi alimentari, alcolici e si parla la stessa lingua.

Il 25 febbraio 1941, lungo la strada che da Villa del Nevoso conduce a Castel Iablanizza (ora Jablanica) in provincia di Fiume (dove passa la linea di confine), presso la cava di pietra di proprietà di tale Leopoldo Oblak, viene rinvenuto un questionario dattiloscritto in sloveno, con richieste sulla consistenza e il movimento degli aerei italiani e tedeschi nell’aeroporto di Campoformio. Le indagini si indirizzano su elementi "slavofili" della zona già sospettati di attività anti - italiana: si scopre che alcuni di essi conducono un tenore di vita superiore alle loro possibilità e che spesso si allontanano dal paese per recarsi in territorio iugoslavo senza passaporto. I primi sospettati sono Antonio Grzina, contadino, e Giuseppe Roiç soldato presso il 73° reggimento di fanteria di stanza a Trieste, entrambi nativi di Verbizza. I carabinieri che hanno seguito i movimenti dei due, rivelano, nei loro rapporti, che i sospettati hanno spesso dei contatti con l’aviere Giuseppe Zefrin, pure originario di Verbizza, che presta servizio presso l’aereoporto di Campoformio. Altri due sospettati per i frequenti contatti con Grzina e Roiç, sono Francesco Vicic, un calzolaio di Villa del Nevoso e Vincenzo Hroatin, contadino di Castel Iablanizza.

L’11 aprile le truppe italiane entrano in Jugoslavia e procedono all’annessione della parte occidentale della Slovenia, compresa Lubiana, che diventa provincia italiana. In Slovenia, al seguito dell’esercito invasore, si insediano nuove forme di governo e nuovi corpi di polizia.

I carabinieri italiani continuano ad investigare sui cinque sospettati e raccolgono informazioni anche al di là del vecchio confine.

Le indagini accertano che una rete di spie ha svolto attività informativa a favore della ex Jugoslavia dal 1938 e ha cessato la sua attività con lo scoppio delle ostilità, poco dopo, quindi, che il ritrovamento del questionario ne rivelasse l'esistenza. La rete era formata dai cinque cittadini italiani allogeni sospettati e da "sudditi della ex Jugoslavia"; il loro capo era Antonio Grzina, "giovane intelligente e scaltro" come scrivono i carabinieri nel loro rapporto che così proseguono: "..amante della vita comoda e dei facili guadagni…vissuto ed educato in ambiente prettamente slavo, professa idee comuniste ed è di accesi sentimenti antiitaliani". In realtà Antonio ha aggiunto lo spionaggio alle altre attività che gli hanno consentito, in tempi difficili, di condurre un tenore di vita che la sua condizione di agricoltore non gli avrebbe permesso. Ha alternato, infatti, alla cura del suo campo l’importazione di cavalli dalla Slovenia; dal 1936 si è dedicato al contrabbando, come molti suoi conterranei, con il cugino Giovanni Primç, di Castel Iablanizza . I frequenti spostamenti lo hanno portato a contatto con le autorità iugoslave che gli hanno offerto, in cambio di informazioni di carattere militare, la possibilità di incrementare i suoi guadagni.

Infatti, da quanto emerge dalla documentazione processuale, Grzina, una volta iniziata la sua attività a favore dei servizi iugoslavi, tende a gestire in prima persona le operazioni, "vendendo" le informazioni e scegliendo, di volta in volta, gli interlocutori. Si comporta, secondo la sua natura, da commerciante che valuta la "merce" da acquistare e da rivendere. L’istruttoria accerta che l’attività del gruppo si è svolta in due fasi: dal 1938 fino alla fine del 1940 e nei primi mesi del 1941, interrotta per un richiamo alle armi di Grzina e cessata, come si è detto, con l’invasione della Jugoslavia. Inizialmente agiscono Grzina, Hroatin e Roiç, con la saltuaria collaborazione di Primç, poi, nel 1940, la rete si allarga a Vicic e Zefrin. Particolarmente preziosa risulta l’opera dell’aviere Zefrin, "di spiccati sentimenti antifascisti e antiitaliani", che riesce a procurarsi notizie sui campi di aviazione di Gorizia e di Campoformio e a fotografare "importanti documenti e pubblicazioni di interesse aeronautico". Nella prima fase il referente di Grzina è il console iugoslavo a Fiume con cui ha contatti personali; poi Antonio invia spesso l’amico Vincenzo Hrovatin a Susak, da tale "Susnik", del Servizio Segreto iugoslavo, infine le informazioni vengono trasmesse a Ivo Stergar, commissario di polizia di Rakek, con cui s’incontra Vincenzo Vicic. Le prime informazioni trasmesse riguardano la dislocazione delle truppe italiane nella zona di Villa del Nevoso e di Fiume, quelle successive descrivono le opere di fortificazione, le polveriere, gli acquedotti, le strade militari e gli aeroporti; le relazioni e i questionari sono sempre corredati da disegni dettagliati, carte topografiche e fotografie. Parte del materiale proviene dall’archivio del comando della II zona aerea di Padova. Spesso gli incontri con gli emissari iugoslavi avvengono in una trattoria a Igovas di Starj Trg, organizzati dalla proprietaria Liubmilla Tomsic e, sempre oltre il confine, con i cittadini iugoslavi Felice Pavlic e i fratelli Giuseppe e Francesco Znidarsic, nonché con alcuni ufficiali dei graniciari, non identificati.

Il 30 ottobre 1941 un’imponente opera di polizia condotta contemporaneamente in tutti i centri di residenza delle persone implicate porta all’arresto simultaneo dei componenti l’intera rete e dei loro collaboratori iugoslavi, ad eccezione di "Susnik", mai identificato.

In sede di processo, considerato lo stato di guerra, la corte considera un’aggravante la posizione di quegli imputati che erano cittadini italiani, per giunta militari, ancor prima del conflitto, nei confronti dei quali viene pronunciata la condanna a morte, ad eccezione di Giovanni Primç, mentre gli altri che, all’epoca in cui fu commesso il reato, erano cittadini iugoslavi, vengono condannati a pene detentive. Antonio Grzina, al momento della sua cattura, era in possesso di una cospicua somma di danaro che gli fu sequestrato dalla polizia: mentre attende la sentenza nel carcere di Regina Coeli ne chiede la restituzione in un italiano sostanzialmente corretto per un allogeno in possesso della V elementare. Più incerto l’italiano di Vincenzo Hroatin, che italianizza il suo cognome. Gli allogeni comunicano fra loro in italiano quando a scrivere le lettere sono bambini che frequentano la scuola italiana: Francesco Vicic riceve una lettera scritta in italiano dalla nipotina Fani, che lo chiama, affettuosamente, zio Franci; lo scritto rivela l’origine contadina di Francesco e fa riferimento a parenti richiamati alle armi e in procinto di partire per il fronte.

Quando i cinque vengono fucilati a Forte Bravetta, il 24 ottobre 1942, nella Jugoslavia occupata le truppe dell’Asse sono impegnate in durissimi scontri con le formazioni partigiane.

La banda del Vipacco

Scrive Paolo Spriano: "Esiste in Italia una zona estremamente periferica nella quale, però, il 1942 è già un anno che vede la lotta antifascista muoversi lungo la strada della resistenza armata. Non è facile tracciarne i confini perché si tratta di una zona (Venezia Giulia, Carnia, Friuli, Istria) dove i protagonisti di una ribellione aperta sono i nuclei etnici e nazionali sloveni..."

Dall’inizio del conflitto le autorità italiane registrano manifestazioni di "ostilità antifascista e antinazionale" condotte da "elementi di lingua slovena e croata" soprattutto nelle città costiere; nel 1941 l’opposizione si intensifica e si estende ai centri agricoli dell’interno. Nel 1942 si formano bande armate e la Polizia e i carabinieri, che non riescono a fronteggiare la situazione con le loro forze, chiedono l’intervento dell’esercito che viene impegnato in azioni di guerra, per la prima volta nella storia del secondo conflitto mondiale, all’interno del territorio italiano. Il passaggio dall’opposizione politica alla lotta armata nella Venezia Giulia avviene con l’invasione della Jugoslavia, l’istituzione della nuova provincia italiana di Lubiana e l’inizio della Resistenza iugoslava che, fin dall’agosto 1941, può contare su 60000 combattenti sostenuti da migliaia di attivisti e collaboratori.

Con la divisione e l’occupazione della Jugoslavia Gorizia, Trieste e Fiume confinano con nuove province "italiane". Paradossalmente, l’abolizione del vecchio confine ricompone l’unità e la continuità del territorio abitato dagli sloveni a ovest di Lubiana (la parte occidentale della Slovenia viene annessa alla Germania) e facilita contatti, scambi, circolazioni di uomini e di idee.

Quando la Resistenza raggiunge la Venezia Giulia nella regione l’irredentismo e il ribellismo slavo sempre vivi a partire dal 1919 trovano come punto di riferimento non soltanto un patrimonio di lingue e di culture da condividere con le popolazioni iugoslave, ma una lotta armata dura e sanguinosa condotta contro il fascismo e il nazismo che vede, in prima fila, anche nel resto d’Europa, proprio i popoli slavi.

La lotta armata viene preparata adottando lo stesso metodo che si sta sperimentando con successo in Slovenia e in Croazia: la formazione di bande attraverso il reclutamento dei combattenti nelle zone dove avrebbero condotto le loro azioni. I vincoli di amicizia e di parentela nei villaggi e nei centri agricoli contribuiscono a ottenere, con il consenso e il sostegno della popolazione civile, viveri e rifornimenti; la conoscenza del terreno rende più efficace la lotta armata e fornisce ai partigiani nascondigli e vie di fuga.

Le armi vengono cedute dai soldati del dissolto esercito iugoslavo o vengono prelevate da vecchi depositi austriaci nei camminamenti carsici; altre provengono da colpi di mano, altre ancora vengono acquistate dagli italiani.

Le prime formazioni partigiane che operano all’interno del vecchio confine nella primavera estate del 1942 prendono il nome dal territorio in cui operano: Tolminska, Kraska, Brkinska, Istrska, ossia del Tolminese, del Carso, dei Brkin, dell’Istria. Alcune di esse si costituiranno in un battaglione intestato al poeta sloveno Simon Gregorcic per poi formare il Sokj Odredo, dell’Isonzo. I loro comandanti sono, di norma, "quadri" provenienti dai "centri" di Lubiana e di Zagabria: fra gli altri Oskar Kovacic, poi condannato dal TSDS e morto in carcere, Joze Udovic, ucciso dai carabinieri a Trieste, Darko Marusis, caduto in combattimento e Mosha Albahari, fucilato a Forte Bravetta.

Una delle prime formazioni partigiane slovene a entrare in azione in Venezia Giulia è la Pivska (di S. Pietro del Carso ora Pivka) comandata dal giovane falegname di Villa del Nevoso Ervin Dolgan, cui si unisce Carlo Maslo, "Matteus", ex contrabbandiere e piccolo proprietario di Monforte del Timavo (ora Reka). Da questa formazione si stacca un nucleo che nel gennaio 1942 dà vita alla Vipska, la banda della valle del Vipacco (ora Vipav) con a capo lo stesso Carlo Maslo e Giovanni Premoli, di S. Vito di Vipacco.

La banda compie una serie di azioni uccidendo militari italiani e cittadini allogeni "di sentimenti italiani" fino al mese di aprile dello stesso anno. La risposta delle autorità italiane è estremamente dura. La caccia alla "banda Maslo" viene data congiuntamente da esercito, polizia, carabinieri e milizia. Il 5 aprile viene incendiata la casa dei Maslo, in Monforte del Timavo dove i soldati italiani, a quanto risulta dai fascicoli processuali, uccidono i contadini Francesco e Giovanni Volk che fuggono durante un controllo: nell’abitazione dei due vengono trovate botti contenenti fagioli, patate e farina nascoste, secondo l’ufficiale che redige il rapporto, per rifornire i ribelli. Il 7 aprile presso Villa del Nevoso vengono incendiati 7 villaggi e impiccati 5 contadini di lingua slovena (30 secondo fonti iugoslave) . Il 18 aprile del 1942 la banda attacca un contingente "misto" italiano.

Il combattimento avviene sul monte Nanos, che sovrasta la valle in una zona impervia e boscosa a pochi km da Postumia e si conclude con un successo delle truppe regolari che disperdono la banda. Quattro ribelli restano uccisi, un quinto viene trovato morto tre giorni dopo da una pattuglia di carabinieri, undici, fra cui due feriti, vengono fatti prigionieri. I due feriti vengono ricoverati e piantonati all’ospedale di Gorizia, gli altri sono tradotti nelle carceri della stessa città.

Sono sequestrate armi di vario calibro e nazionalità: sui lati del calcio di molti fucili è impressa a fuoco il simbolo della falce e martello. Il comandante del gruppo, Carlo Maslo ormai noto alle autorità di polizia, sfugge alla cattura assieme ai suoi due fratelli e agli altri elementi di spicco della formazione. La banda si ricostituisce e la repressione italiana prosegue: il 5 giugno viene impiccato nella piazza di Villa del Nevoso l’operaio sloveno Giacomo Pezaman, dopo un’incursione di una squadra della MVNS.

I "ribelli" catturati indossano indumenti militari con mostrine del disciolto esercito iugoslavo e berretti con la stella rossa; sono tutti molto giovani, di lingua slovena, si definiscono combattenti dell’Oslobodilna Fronta Slovenskega Naroda e dichiarano, oltre alle generalità, i loro nomi di battaglia. Dai primi interrogatori resi agli ufficiali italiani e dalle prime informazioni provenienti dai comandi militari risulta che uno soltanto è di Lubiana: gli altri dieci sono originari di paesi vicini alla località dove sono stati catturati e sono ricercati da tempo perché non hanno risposto alla chiamata delle autorità militari italiane o hanno abbandonato i reparti di appartenenza.

I carabinieri che conducono le indagini preliminari acquisiscono gli elementi di accusa, accertano ulteriori responsabilità e procedono a nuovi arresti. Si scopre, infatti, che la banda oltre che da veri e propri combattenti è composta da "fiancheggiatori" residenti nella zona che, pur non avendo partecipato direttamente alle azioni, hanno fornito nascondigli e rifornimenti. Vengono così emessi 21 mandati di cattura, di cui 5 in contumacia; gli atti vengono trasmessi al TSDS, a Roma, dove gli imputati sono trasferiti il 14 giugno e processati.

Questi i fatti che vengono contestati alla "banda del Vipacco":

3 febbraio 1942 furto di una mitragliatrice S.I.A. presso il posto di guardia nella galleria ferroviaria di S. Daniele del Carso (ora Stanjel);

31 marzo rapimento e uccisione dell’ufficiale esattoriale Enrico Mecozzi, nel bosco di Succorie presso Postumia;

4 aprile, uccisione del tenente dei carabinieri Giacomo Zani e del brigadiere Giuseppe Londei nei pressi di Cossana;

10 aprile rapina di 30 lire ai danni del contadino Felice Brandolesi nei pressi di S. Canziano di Divaccia (Skoljan);

10 aprile rapimento di Andrea e Giorgio Laurenti, padre e figlio con ferimento del primo e uccisione del secondo a Verpogliano;

14 aprile irruzione nella tenuta del barone Demetrio Economo a Prevallo con furto di due buoi, una bicicletta e generi alimentari per un valore di oltre venti mila lire;

18 aprile uccisione di 4 militari italiani e ferimento di altri 7 sul monte Nanos.

L’istruttoria non conferma il furto della mitragliatrice a S. Daniele, ma gli imputati confessano gli altri reati contestati. Dalla ricostruzione dei fatti emerge che la banda non si è mossa seguendo quegli obiettivi strettamente militari che una guerra, anche se condotta "alla macchia", suggerirebbe. Enrico Mecozzi è ufficiale esattoriale di Postumia e viene prelevato dopo aver eseguito un sequestro ai danni della contadina Anna Krebeli. Il tenente Zani prima di cadere in un’imboscata assieme al brigadiere Londei ha indagato sull’omicidio del Mecozzi e ha fatto arrestare il padre di Carlo Maslo. Andrea e Giorgio Laurenti sono "allogeni" di "dichiarati sentimenti italiani…[e di]… provata fede fascista".

La rapina al barone Economo sicuramente ha lo scopo di sostentare la banda, ma assume un significato ideologico dal momento che il proprietario, oltre ad essere notoriamente ricco è anche lui di "sentimenti italiani". Il contadino rapinato di trenta lire (cui non viene fatta violenza fisica) è di lingua italiana e i suoi aggressori che indossano "vestiti alla maniera dei graniciari..e…parlano male l’italiano" gli rilasciano una ricevuta scritta di loro pugno per conto dell’OF; anche questo, nella sua ingenuità, ha un valore politico.

Come aspetti rituali e simbolici assume l’omicidio del giovane Laurenti. La ricognizione medica identifica come causa della morte un colpo di fucile all’addome, ma riscontra numerose ferite anche leggere provocate da armi da taglio su tutto il corpo: uno solo ha sparato ma tutti i componenti del gruppo hanno partecipato all’uccisione del nemico e hanno condiviso la responsabilità del gesto. Sembra, in definitiva, che la banda, non ancora pronta per obiettivi militari di un certo rilievo, compia azioni "esemplari" per imporre la sua presenza nel territorio e per acquistare il consenso della popolazione di lingua slovena indicando il nemico da combattere e mostrando, anche visivamente, il segno di un nuovo potere. Anche la risposta italiana vuole essere esemplare: gli incendi delle case nei villaggi sono un monito per le popolazioni.

I disertori catturati non sono nuovi ad azioni di guerriglia.

La denuncia per diserzione delle autorità militari per i più anziani risale al 1940 e addirittura al 1938, mentre i più giovani, poco più che ventenni, risultano non rientrati ai reparti di appartenenza da non meno di sei mesi; il periodo di latitanza ha coinciso con la partecipazione, diretta o indiretta ad azioni prima in Slovenia, poi nella Venezia Giulia. L’istruttoria accerta, grazie alle relazioni dei carabinieri che, una volta deciso di abbandonare l’esercito italiano, i disertori, dopo un breve periodo, entrano nelle "organizzazioni comuniste" con sede a Zagabria e Lubiana: "…gli affiliati sono denominati partigiani e sono reclutati, in prevalenza, fra gli allogeni soggetti ad obblighi militari, previa istigazione alla renitenza e alla diserzione". L’aspetto politico è sottolineato anche nella sentenza in cui si legge che i partigiani combattono "contro il fascismo e la dominazione italo – germanica …per la instaurazione di una Slovenia sovietica indipendente".

"Per quanto riguarda il nostro territorio – si prosegue - ..finalità delle anzidette manifestazioni delittuose è quella di terrorizzare, con stragi, incendi, rapine, gli allogeni che mostrano simpatie per l’Italia.."

In sede di giudizio si distinguono i ribelli dai semplici fiancheggiatori e vengono considerate circostanze aggravanti il possesso della cittadinanza italiana prima dell’invasione della Jugoslavia, l’appartenenza all’esercito italiano e la partecipazione con uso delle armi allo scontro sul monte Nanos; nove degli imputati, tutti cittadini italiani, vengono condannati a morte e alla degradazione se militari, gli altri a pene detentive. Anche gli imputati latitanti, fra cui Carlo Maslo, vengono condannati a morte in contumacia. La sentenza viene eseguita a Forte Bravetta il 26 giugno 1942. Carlo Maslo continua la sua attività nella zona: il fratello Francesco viene ucciso in conflitto a fuoco il 12 novembre 1942, il 2 ottobre 1942 nel vallone boscoso ad est di Prelove S. Egidio viene catturata dalla polizia la sorella Maria, che viene anche ferita ad una gamba dal morso di un cane poliziotto. Maria è definita una "donna coraggiosa, intelligente e sveltissima". Il 10 maggio 1943 la donna viene condannata a 24 anni di reclusione. Dal 21 maggio risulta nelle carceri giudiziarie di Reggio Calabria "per donne".

Il 19 gennaio 1943, con sentenza n. 26, il TSDS condanna altri quattro componenti della banda ricostituita.

Nei fascicoli del carcere di Regina Coeli sono rimaste le traduzioni in italiano di alcune lettere che i condannati a morte hanno scritto in sloveno agli amici e ai parenti prima dell’esecuzione.

Le lettere sono state trasmesse al Ministero dell’Interno – Ufficio Censura per la traduzione e per l’autorizzazione al recapito ai destinatari; nel caso di parere contrario dell’ufficio competente sono rimasti anche gli originali in sloveno.

Le lettere sono indirizzate in genere alla madre e agli altri parenti ma non mancano riferimenti agli "amici del paese", riflettono l’origine contadina di chi le ha scritte e denunciano, forse inconsapevolmente, la dura condizione carceraria.

Antonio Belè scrive alla madre e sembra voler attenuare il dolore della donna comunicandole di aver chiesto la grazia a "sua Maestà Re e Imperatore". Giovanni Cekada si dichiara meritevole della pena capitale. Leopoldo Frank scrive in un italiano incerto e chiede notizie sulla raccolta della frutta. Carlo Kalusa saluta i suoi con una bella immagine: dà loro appuntamento "sopra le stelle".Giuseppe Hrescah chiede un po’ di soldi per comperare del vino. Francesco Vinci si lamenta per l’alimentazione in carcere e chiede soldi per il "sopravvitto", quest’ultima lettera non viene inoltrata per il suo contenuto.

La fucilazione dei 9 partigiani giuliani a Forte Bravetta e la dura reazione italiana dopo lo scontro sul Nanos non fermano la lotta armata che prosegue e si estende collegandosi con le formazioni croate che agiscono sul "Litorale".

I commissari politici

Il croato Mosha Albahari, che ha già avuto contatti con le bande giuliane, una volta rientrato a Zagabria riceve dal "centro" l’incarico di organizzare nuclei di resistenza nelle province di Trieste e di Fiume. Essendo già segnalato alle forze di polizia assume come falso nome quello della sua città di origine, Blecic. Deve contattare persone che già svolgono attività clandestina per esortarle a passare dall’opposizione politica alla lotta armata. Ha con sé un foglio con i nomi delle persone da incontrare e la parola d’ordine da pronunciare in loro presenza. Viene affiancato per la missione da Miro Grahalic, nativo di Pola che parla, anche se non speditamente, l’italiano. Quando varcano la frontiera, a Susak, i due non lasciano la Jugoslavia ma un regno di Croazia senza re controllato, anche se con difficoltà, dalle truppe italiane e, soprattutto, dagli ustasha. Entrati in Italia, a Mattuglie (ora Matulji), presso Fiume hanno un primo incontro con Gioacchino Jurdana, fratello di Alberto ("Berto"), esponente della resistenza, e Giacomo Braian, in casa di quest’ultimo la sera del 7 luglio 1942. I due emissari di Zagabria, in particolare Albahari, durante un breve colloquio che si svolge nella cucina dell'abitazione, a quanto risulta dai verbali degli interrogatori, sostengono che le azioni nelle province di Trieste e Fiume devono essere più incisive e che i partigiani di Fiume possono contare sul sostegno di un esercito di liberazione che sta operando con successo in tutta la Jugoslavia grazie anche alle "armi pesanti e carri armati" di cui dispone.

Al commissariato di Mattuglie viene segnalato l’incontro; l’informazione proviene dall’albergo "Palazzo" di Sabazia (ora Opatja) dove lavora come giardiniere Giovanni Braian, fratello di Giacomo.

Mentre si svolge il colloquio, un contingente formato da 5 agenti, 3 carabinieri, 25 fanti al comando del commissario Solito, circonda la casa e irrompe nell’interno. Giacomo Braian viene subito arrestato in cucina senza che opponga resistenza; su indicazione dello stesso Braian i soldati scendono nella stalla dove si sono rifugiati Mosha Albahari, Miro Grahalic e Gioacchino Jurdana. Intimata la resa dalla stalla partono colpi di rivoltella e si sente una voce gridare: "Viva Stalin, viva la Russia, abbasso il popolo italiano!" I soldati aprono il fuoco e i tre si arrendono.

Albahari riporta una ferita alla coscia sinistra, Grahalic alle gambe e all’occipite, Jurdana è illeso. Perquisiti, ai primi due viene sequestrato il foglio contenente i nomi delle persone da contattare. Albahari (che fornisce il falso nome di Belic) e Grahalic "sono da ritenersi commissari politici" secondo il rapporto del commissario, in quanto trovati in possesso di "parole d’ordine dei ribelli" e di "indicazioni scritte circa la dislocazione dei gruppi comunisti nelle province di Pola, Fiume e Trieste" e perché, su ammissione degli altri arrestati, avrebbero dovuto impartire disposizioni per azioni armate nel territorio.

Durante gli interrogatori Albahari si mantiene calmo e tenta una difficile difesa. Nega di voler organizzare bande armate in Venezia Giulia, giustifica il suo arrivo in Italia perché "qui si sta meglio"; nega di possedere informazioni circa il possesso di armi pesanti da parte dei partigiani iugoslavi, ammette di aver sparato e di aver gridato viva Stalin perché aveva timore che lo stessero uccidendo. Nonostante gli inquirenti nutrano forti dubbi sulle generalità dichiarate e attestate da documenti palesemente contraffatti, non rivela la sua identità.

Meno coerente l’atteggiamento degli altri tre, compreso il Grahalic, che ammettono di aver partecipato a una riunione "politica" su iniziativa, però, di "Blecic" senza aver intenzione di aderire alle proposte da questi avanzate di far crescere la lotta armata nella zona. Rinviati a giudizio e tradotti a Roma il 12 novembre 1942 Blecic/Albahari e Grahalic vengono condannati a morte, Jurdana e Braian a 16 anni di reclusione "quali agitatori di quelle bande ribelli che tengono impegnate nostre grandi unità necessarie altrove e colà inchiodate e che subiscono notevoli, dolorose perdite". Qualche giorno dopo viene catturato anche "Berto", Alberto Jurdana, per aver tentato di acquistare armi a soldati italiani nelle osterie "Penko" e "Fabiani" in S. Pietro del Carso.

Alle 5,30 del 13 novembre 1942 i due commissari politici vengono fucilati da un plotone della MVSN e sono assistiti, nei momenti precedenti l’esecuzione, da un sacerdote croato. Alcuni giorni prima, a El Alamein, in Egitto, i britannici hanno riportato una vittoria decisiva per il controllo del nord Africa.

I fratelli Zaccaria

Il 10 novembre 1942, mentre le truppe britanniche in Egitto rioccupano Sidi El Barrani e inseguono gli italo–tedeschi in ritirata verso Tripoli, a Forte Bravetta cadono i fratelli fiumani Amauri ed Egone Zaccaria.

Durante la dura battaglia in nord Africa la "guerra dei convogli", una costante dall’inizio del conflitto, si intensifica: appare decisivo per i due eserciti impegnati nei duri combattimenti ricevere carburante e rifornimenti.

L’esercito italiano, nel timore di attacchi aerei e sbarchi di "commando" rafforza le misure di difesa e di vigilanza sulle coste della penisola, riparo e punto di partenza dei convogli diretti al fronte africano.

La mattina del 9 ottobre 1942, intorno alle 4.45, due fanti appartenenti al 79° battaglione costiero di stanza a Foce di Napoli, in servizio di pattuglia, trovano un battello semi arenato sulla spiaggia di Licola e avvisano il comando che procede al rastrellamento della zona sospettando un’incursione di commando inglesi. Poche ore dopo, nella campagna di Cuma, una pattuglia ferma due ufficiali (un tenente di fanteria ed un tenente medico) che stanno mangiando dell'uva. I due destano sospetti per la "pronuncia esotica" e sono in possesso di una notevole quantità di danaro e di tessere contraffatte. Nelle vicinanze del canotto, infine, i soldati trovano dei pezzi di ricambio per apparecchi radio.

I due vengono interrogati dal maggiore di fanteria Zecchin, cui rivelano i loro veri nomi, Amauri ed Egone Zaccaria e si dichiarano "italiani dei più puri". Nel corso dell’interrogatorio cadono in diverse contraddizioni; finiscono quindi con l’ammettere di essere stati sbarcati da un sommergibile per trasmettere via radio informazioni agli inglesi. Aggiungono di essere cittadini italiani residenti in Egitto e di aver accettato la missione per tornare in patria ed evitare l’internamento in un campo inglese di prigionia. Gli argomenti sono tutt’altro che convincenti; i due vengono denunciati al TSDS che avvia il procedimento.

Le note informative che giungono sul tavolo degli inquirenti peggiorano la posizione dei fratelli Zaccaria.

Dal rapporto del maggiore dei carabinieri Carmelo Cocco risulta che i due fratelli appartengono a una famiglia di "antiitaliani" e di "filocomunisti". Amauri, militare in congedo, è sospettato da tempo di attività antifascista, Egone è colpito da mandato di cattura come disertore, entrambi hanno diversi precedenti per furto. I genitori, Alessandro e Maria Soucek sono definiti agenti "accertati": lei è internata a Montefusco, mentre Alessandro, dopo aver lavorato per i servizi inglese e iugoslavo, nel febbraio 1941, per sottrarsi all'arresto è fuggito in Jugoslavia dove è diventato "un capo del movimento Partigiani della Croazia". Secondo una nota del SIM, infine, i fratelli Zaccaria avrebbero fatto parte dell'Armata d'Oriente, agli ordini del generale Wavell.

Durante l’istruttoria Amauri ed Egone sono costretti a modificare la versione fornita al momento dell’arresto e rivelano tutta l’attività da loro svolta a favore degli inglesi tentando di giustificare la collaborazione offerta. Amauri sostiene di aver lasciato l’Italia nel 1940 alla ricerca di un lavoro. Giunto a Susak, in Jugoslavia, si è rivolto al consolato francese per ottenere un impiego nelle colonie francesi, ma senza risultato. A Susak però ha conosciuto un inglese, tale Peter che gli ha assicurato un’occupazione in Oriente. Desiderando offrire la stessa opportunità al fratello, che si trovava in servizio di leva presso un battaglione di "allogeni" ad Avellino, è tornato in Italia, ha raggiunto Egone e lo ha convinto a disertare conducendolo con sé a Susak. Dalla città croata i due fratelli, tramite un tale Haimes (o Evens) del consolato inglese, hanno raggiunto Istanbul dove è avvenuto il loro effettivo arruolamento nell’IS. Dalla Turchia sono stati inviati a Haifa, Gerusalemme e, infine, a Il Cairo. In Egitto, dove la loro permanenza è relativamente lunga, hanno accettato di interrogare gli internati italiani e sono stati addestrati all’uso delle radio–trasmittenti e alla decodificazione dei cifrari. Terminato l’addestramento sono stati assegnati alle basi operative di Malta da dove è partito il sommergibile che li ha sbarcati sulla costa campana.

Rinviati a giudizio, i due confermano quanto dichiarato nell’istruttoria e ribadiscono di aver collaborato con gli inglesi per avere l’opportunità di tornare in Italia "allo scopo di renderci utili al nostro paese". Il 9 novembre vengono condannati a morte "per avere fra l’agosto 1940 e il 9 ottobre 1942 commesso in Italia e all’estero fatti diretti a favorire le operazioni militari del nemico a danno dello stato italiano.."

La sentenza viene eseguita da un plotone della MVSN il giorno dopo il suo pronunciamento.

Il cappellano del carcere di Regina Coeli, don Cosimo Bonaldi, che ha assistito spiritualmente i fratelli Zaccaria al momento dell’esecuzione, dichiara, nella sua breve relazione che i due "..dimostrando resipiscenza e rassegnazione si sono mantenuti calmi.."

Alcune considerazioni

Gli episodi descritti sono legati fra loro da almeno tre elementi:

l’area geografica di provenienza dei protagonisti, la celebrazione dei giudizi innanzi al TSDS e l’epilogo drammatico nel carcere di Regina Coeli e a Forte Bravetta a Roma.

I fatti e le circostanze che emergono dalle risultanze processuali toccano alcuni grandi temi che la ricca storiografia esistente sulla II guerra mondiale e sulla Resistenza ha ampiamente trattato e che questo lavoro considera come necessario punto di riferimento per inserire le vicende descritte nei contesti in cui sono maturate: lo spionaggio alleato e il controspionaggio italiano nella II guerra mondiale, il movimento di Resistenza in Venezia Giulia nel 1942 e i suoi collegamenti con le formazioni iugoslave, le misure repressive adottate dalle autorità italiane e la politica di queste nei confronti delle popolazioni definite allogene in tempo di guerra.

La prima considerazione che le vicende suggeriscono a chi, come l’autore di queste note, lavora in un istituto della capitale, è che l’espressione "…una zona estremamente periferica…" riferita alla Venezia Giulia che precede l’esposizione dei fatti relativi alla "banda del Vipacco" è sicuramente da rivedere.

Solo da un angolo di visuale "italocentrico" o addirittura "romanocentrico", per usare brutte espressioni, le complesse questioni della "Frontiera Orientale" possono considerarsi legate a situazioni locali e marginali rispetto ai grandi temi della politica interna ed estera italiana.

Con la rettifica dei confini del 1919 entra a far parte dello stato italiano un numero considerevole cittadini allogeni che sono portatori e depositari di un patrimonio culturale con precisi punti di riferimento nell’est e nel centro dell’Europa e che finiscono con il pagare gli errori commessi dalle grandi potenze all’indomani del conflitto nel riordinare il continente sconvolto dal crollo dei grandi imperi e nel tentativo, rivelatosi illusorio, di imporre nuovi equilibri.

La Venezia Giulia, la Carnia, il Friuli e l’Istria hanno rappresentato, per secoli, un "crocevia" in cui si sono sedimentate culture, lingue e istituzioni con forti elementi di originalità e di diversità rispetto al resto della penisola. Non aver capito o non possedere oggettivamente i mezzi per comprendere questo e aver considerato gli elementi allogeni come un "corpo estraneo" da integrare secondo le regole e le esigenze della cultura e dei gruppi dominanti è stato il grande limite della politica italiana nella regione negli anni intercorsi fra la fine della I guerra mondiale e l’inizio della seconda.

Con l’avvento del regime fascista e l’avvicinarsi della II guerra mondiale la difficile convivenza fra nuclei di cultura slava e le autorità italiane in quella che comincia a chiamarsi "Frontiera Orientale" diventa critica.

E’ pertanto relativamente facile per gli inglesi arruolare collaboratori a vari livelli in popolazioni che non si identificano con uno stato che è ormai diventato il comune nemico. E non è casuale che prima ancora dello scoppio del conflitto l’IS utilizzi un gruppo di triestini cresciuti in ambiente austro - ungarico per quella che molto probabilmente è una delle prime azioni di spionaggio britannico contro l’Italia.

L’opposizione cresce con l’entrata in guerra dell’Italia, si evolve con il mutare della situazione militare e diventa lotta armata con l’invasione della Jugoslavia. Le autorità italiane rispondono con misure di polizia anche severe quando l’opposizione è solo politica, con l’esercito quando si formano le prime bande armate e nel 1942, anche se non si può parlare di situazione insurrezionale, vengono sperimentate forme repressive che verranno adottate nel resto dell’Italia del centro e del nord dopo l’8 settembre e non soltanto dalle forze italiane.

Fin dal 1940 in Venezia Giulia si adottano le "tradizionali" misure prese nel resto della penisola (l’arresto, il confino e le denunce al TSDS che non risparmiano i sacerdoti e gli ebrei); con l’aggiunta però di una massiccia presenza di truppe armate, della costituzione di polizie speciali e dell’allestimento di campi di concentramento in Veneto e nelle province di Udine, Gorizia e Trieste che anticipano nella regione lo scenario di occupazione e di guerra che dominerà l’intera penisola solo dopo l’8 settembre 1943. I provvedimenti di invio al confino e nei campi di concentramento delle "commissioni provinciali" sono così frequenti e riguardano un numero così elevato di persone che fin dal 1940 le autorità non riescono a predisporre le strutture necessarie

Dopo i giuliani, nel corso del conflitto nei campi di concentramento vengono inviati i civili iugoslavi. In uno di questi campi, a Lipari, un gruppo di internati croati organizza corsi di marxismo – leninismo e di storia dell’URSS, predispone un servizio di "Soccorso rosso" per i prigionieri in difficoltà e sottopone a giudizio (comminando pene da scontarsi a liberazione avvenuta) nei confronti di coloro che collaborano con gli italiani.

Il formarsi di nuclei di partigiani sloveni e croati nel 1942 provoca un inasprimento dell’azione repressiva. Abolito il vecchio confine, da San Daniele fino a Lubiana è tutto territorio italiano: vi operano quindi polizia, carabinieri, esercito, milizia e vi giudica il TSDS e, come avverrà nella RSI, a combattere la Resistenza si adoperano polizie regolari e speciali e forze armate. A coordinare le operazioni sono prefetti, questori e comandanti militari, non senza contrasti. Inchieste di polizia e azioni militari si intrecciano nella lotta alle bande partigiane e l’esercito introduce l’elemento tipico dei territori di occupazione: la rappresaglia.

Il livello della lotta armata, tuttavia, nel 1942 appare diverso nella regione da come si sta svolgendo in Jugoslavia e nella stessa "nuova provincia di Lubiana".

S’è visto come la "banda del Vipacco" non raggiunga obiettivi di apprezzabile importanza strategica e tenda a compiere azioni esemplari volte a coinvolgere la popolazione di lingua slovena e come Mosha Albahari, nella sua sfortunata missione, si proponga di suscitare la lotta armata organizzata a ridosso del Litorale. Un gregario della banda Maslo, Luigi Vrecar, è di Lubiana e nel corso dell’istruttoria i carabinieri vengono in possesso di particolari su un’azione partigiana condotta con una tecnica e una scelta degli obiettivi certamente più efficaci di quanto non stia avvenendo all’interno del vecchio confine. I collegamenti fra la regione e i "centri" di Lubiana e di Zagabria sono comunque evidenti. Il 17 settembre 1942 con sentenza n. 622 il TSDS, nello stesso procedimento in cui viene processato Oskar Kovacic, condanna un gruppo di oppositori di Lubiana, in maggioranza studenti, con l’accusa di: "partecipazione ad un’associazione di cittadini italiani di lingua slovena avente per fine di commettere attentati contro l’integrità dello stato". Studenti, operai e impiegati di Lubiana si collegano con gli sloveni della Venezia Giulia e ne coordinano le azioni; ma non nel caso della "Vipska", comandata da capi "autoctoni" la cui conduzione suscita perplessità da parte della direzione politica della Resistenza. La forte caratterizzazione etnica e popolare di Maslo e dei suoi viene colta dalle autorità italiane che insistono, nelle loro relazioni, sui "saccheggi" e le "rapine" commesse dalla formazione di cui comunque non sottovalutano le motivazioni politiche. La banda, poi, pur essendo strutturata seconda una gerarchia di tipo militare, sembra non avere, al suo interno, figure paragonabili ai commissari politici delle formazioni partigiane comuniste. Non sfugge invece ai carabinieri lo spessore anche ideologico di Blecic/Albahari che definiscono, con il suo compagno Grahalic, "commissario politico".

Sono caratteristiche, quindi, delle prime formazioni giuliane, la mobilità dei loro capi fra le varie zone e fra queste e la Jugoslavia; oltre ai capi si spostano frequentemente anche i gregari, soprattutto i disertori che, abbandonati i reparti, si rifugiano in Slovenia e Croazia. L’esercito, o meglio il servizio di leva, è uno dei terreni più fertili di arruolamento dei partigiani, grazie anche ai battaglioni "smilitarizzati" di allogeni di stanza nelle regioni meridionali del paese. S’è visto come uno dei due fratelli Zaccaria appartenesse a uno di questi reggimenti ad Avellino e si è visto come alcune lettere spedite ai caduti a Forte Bravetta ricordino amici e congiunti "sotto le armi". I cittadini allogeni, inoltre, hanno dato il loro contributo alle guerre italiane: nel solo 1941 vengono arruolati 5000 cittadini italiani di lingua croata e slovena; in precedenza la sola provincia di Gorizia ha dato circa 3000 volontari alla guerra d’Etiopia.

L’esperienza militare è stata fondamentale per molti contadini giuliani di lingua slovena e croata: hanno imparato l’uso delle armi, hanno comunicato con commilitoni della propria e di altre regioni, hanno imparato a stare insieme e a condividere una condizione in comune.

Come sarà fondamentale, dopo l’8 settembre, per molti partigiani italiani, la dolorosa esperienza vissuta come soldati sui campi di battaglia.

La documentazione consultata

I fascicoli processuali consultati per il presente lavoro contengono gli atti istruttori dei procedimenti che terminano con la denuncia e la messa in accusa degli inquisiti; al provvedimento che invia gli atti al TSDS sono, in genere, allegate le relazioni della polizia e dei carabinieri che hanno condotto le indagini e dei comandanti dei reparti dell’EI che sono intervenuti nei conflitti a fuoco. Nei voluminosi fascicoli sono inoltre conservati alcuni documenti acquisiti dall’accusa come elemento di prova: tessere di riconoscimento e passaporti falsi, messaggi e "questionari", a volte in codice, carte geografiche con i nomi dei luoghi scritti in inglese o nelle lingue iugoslave, valuta di varie nazionalità, lettere scritte in inchiostro simpatico. Di estremo interesse, per i casi di spionaggio, sono le perizie affidate dal tribunale ad esperti delle varie armi per valutare l’importanza militare delle carte sequestrate e delle informazioni intercettate.

I fascicoli carcerari contengono, invece, la seguente documentazione:

a) modulo 25. Nota di trasmissione diretta al Ministero di Grazia e Giustizia con cui si comunica l'avvenuta esecuzione

b) cartella biografica contenente i dati anagrafici del condannato, notizie sulla sua carcerazione, gli artt. del c.p. o militare in base ai quali ha ricevuto la condanna, le impronte digitali, la fotografia

c) nota di trasmissione diretta al Ministero degli Interni per il nulla osta dell’Ufficio Censura all'inoltro della corrispondenza.

d) carteggio fra la direzione del carcere e altri uffici (Ministero dell’Interno, SIM, TSDS)

e) note interne riguardanti i detenuti (ricevute di somme prelevate dai libretti di deposito, richieste di colloquio con i familiari, richieste di visite mediche).

f) note degli effetti personali lasciate dai condannati e restituite ai congiunti o richieste da parte di questi.

 

Su Jugoslavia esecuzioni a Roma Renicci di Anghiari

 

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Ipertesto realizzato dal Prof. Giuseppe Landolfi

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