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I campi italiani

Il campo di concentramento di Arbe (Rab in croato)

Il campo di Arbe), una delle isole che costellano il lato orientale dell'Adriatico (oggi territorio della Repubblica di Croazia), fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche ebrei. In poco più di un anno di funzionamento (il campo cessò di esistere 1'11 settembre del 1943), il regime di vita particolarmente duro causò la morte di circa 1.500 internati.

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La storia del campo

Il 7 luglio 1942 il comandante della II Armata, Roatta, informa il comando del’XI Corpo d'Armata: il comando superiore aveva predisposto a Rab un campo con 6.000 persone sotto le tende...oltre a questo campo, ne sarebbe stato preparato un altro per 10.000 persone.
Viene così edificato il primo campo di concentramento, definito n.1. Successivamente entrano in funzione i campi II, III, IV. Il Campo III fu destinato a donne e bambini, esso era situato ai limiti di una puzzolente palude. Gli altri erano collocati a ridosso di latrine che traboccavano in caso di forti temporali, allagando i campi.
A fine luglio 1942 avviene il primo trasporto di internati.
La guardia armata dei campi dell'isola di Rab, viene inizialmente affidata a militari del V Corpo d'Armata, successivamente sostituiti da una guarnigione di 2.000 soldati e ufficiali, più 200 carabinieri.
Gli stessi detenuti sopravvissuti hanno riferito che la maggioranza dei soldati e di giovani ufficiali manifestavano una certa apatia, non accanendosi sui prigionieri.
Nella primavera del 1943, si presentano i primi segni di sfacelo della guarnigione, si palesano volontà di avvicinamento verso i detenuti, malgrado la ferrea disciplina imposta dal comandante del campo, il tenente colonnello Vincenzo CIAULI, fanatico fascista, sadico, uso ad adoperare solo la frusta. Odiato anche dai soldati italiani.
In una relazione delle forze armate italiane sui trasporti militari, ritrovata nel campo dopo la liberazione, sono elencati tutti i singoli arrivi con il numero dei deportati. In totale essi risultano 9.537 persone (4.958 uomini, 1296 donne,1.039 bambini), più 1.027 ebrei (930 donne, 287 bambini); per un totale di 10.564. (sono esclusi quelli in transito verso altri campi, compresi quelli sul suolo italiano).
I deportati sono stipati in piccole, vecchie tende militari, scarsamente o per nulla impermeabili, su paglia già usata, con una leggera coperta: il tutto pieno di pidocchi e cimici.
Molti sono stati rastrellati mentre lavoravano nei campi in estate, sono semi nudi e nulla viene dato loro per coprirsi. Condizioni bestiali, in particolare per l'autunno e l'inverno: pioggia, neve, con la gelida bora imperversante. Le migliaia di detenuti dispongono di soli tre rubinetti per l'acqua, erogata tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio. Nei casi di punizione l'acqua viene tolta.
Per la fame, il freddo, gli insetti, le malattie, la mortalità diventa elevatissima, in particolare per i bambini, le donne (alcune sono partorienti), vecchi (un internato ha 92 anni).
Le possibilità di sopravvivenza concerne solamente i più robusti fisicamente e spiritualmente più resistenti.
E' ignoto il numero dei deportati morti nel campo di concentramento di Rab (sarebbero almeno 1500).
Si possono solo citare brani di una lettera, in data 15 dicembre 1942, dell'Alto Commissario, Grazioli: "... mi riferiscono che in questi giorni stanno ritornando degli internati dai campi di concentramento, specialmente da Rab. Il I medico provinciale... ha costatato che tutti senza eccezioni, mostrano sintomi del più grave deperimento e di esaurimento, e cioè: dimagramento patologico, completa scomparsa del tessuto grasso nella cavità degli occhi, pressione bassa, grave atrofia muscolare, gambe gonfie con accumulo di acqua, peggioramento della vista (retinite), incapacità di trattenere il cibo, vomito, diarree o grave stipsi, disturbi funzionali, auto intossicazione con febbre."
Il comandante di allora dell’ XI corpo d'armata, il criminale di guerra Gastone Gambara, risponde scrivendo, tra l’altro di suo pugno: "è comprensibile e giusto che il campo di concentramento non sia un campo di ingrassamento. Una persona ammalata è una persona che ci lascia in pace".
"Nelle vicinanze del campo esisteva un ambulatorio, così viene descritto. La casa aveva alcune camere e una cantina. Doveva servire per gli ammalati più gravi, tuttavia succedeva raramente che anche là venisse inviato qualche simile ammalato. Essendo il numero dei letti insignificanti, gli ammalati giacevano nei corridoi e persino in cantina, addirittura per terra. In cantina finivano di solito malati gravi che erano già sul punto di morte".
A pochi mesi dalla liberazione, alcuni alberghi di Rab vennero trasformati in ospedale. I medici sono ritenuti "buoni ed umani… ma non potevano fare niente con una amministrazione incapace e corrotta".
Nell'inizio dell'estate del 1943, si estende la convinzione di una prossima, generale disfatta del nazifascismo. Alcuni miglioramenti furono introdotti nei campi e negli ospedali di Rab...
Con il 25 luglio 1943, e la fine della ventennale dittatura fascista, le prospettive nel campo non cambiano. Gli internati reagirono "spontaneamente e sorprendentemente: cantando", prima canti popolari poi quelli partigiani; carabinieri e militari non reagirono.
Intanto si intensifica, fra chi è rimasto vivo, l'attività politica e la formazione di nuclei partigiani clandestini per la liberazione dei campi.
L'8 settembre 1943, di sera, "scoppiò improvvisamente un'ondata di entusiasmo nelle truppe di occupazione". Guardie e carabinieri rimasero al loro posto; ciò malgrado, il 10 settembre venne organizzata dai gruppi clandestini un’assemblea dei detenuti, fu eletta una nuova amministrazione del campo, ammainata la bandiera italiana. I militari italiani sono disarmati e portati nel porto di Rab, arrestati il Ciauli ed una spia già nota. Si forma la brigata partigiana "Rab"; i giorni 15 e 16 settembre sbarco sul continente. Ciauli viene processato e condannato alla fucilazione.

(dai siti Pinerolo Cultura e rossaprimavera.org)

 

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Ipertesto realizzato dal Prof. Giuseppe Landolfi

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