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Lo sterminio degli Armeni 1915-1918

di Alberto Rosselli

La persecuzione scatenata, tra il 1914 e il 1918, dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Una campagna di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia, scopertamente razzista, del sedicente Partito "progressista" dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini più profonde dalle antiche e mai sopite contrapposizioni religiose tra i mussulmani ottomani e curdi e la minoranza cristiana armena. Ma ripercorriamo, in sintesi, le tappe fondamentali del lungo calvario armeno iniziato in sordina nella seconda metà dell’Ottocento all’interno dei confini del decadente Impero Ottomano. Tra il 1894 e il 1896, il sultano ‘Abd ul-Hamid avviò un primo vero e proprio programma di emarginazione nei confronti degli armeni scaricando su questa comunità la responsabilità dei fallimenti economici del suo governo assolutamente incapace ad affrontare le sfide della modernità e a resistere alla pressione esercitata sull’Impero da parte delle nuove realtà nazionali balcaniche e delle grandi Potenze occidentali. Dopo avere dovuto rinunciare, in seguito alla guerra con l’Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica del 1913, a gran parte dei suoi territori (Libia, Albania, Macedonia e numerose isole dell’Egeo), il governo di Costantinopoli, era entrato in una crisi molto acuta. Temendo la completa dissoluzione dell’Impero, prima la Sacra Porta e poi il Partito dei Giovani Turchi, avevano quindi assunto un atteggiamento sempre più sospettoso e rigido nei confronti delle minoranze armene, ebraica e araba, colpevoli - secondo i vertici di Costantinopoli - di tramare contro l’Impero. Il motivo della diffidenza turca nel confronti degli armeni scaturiva soprattutto da precise considerazioni di carattere politico e religioso. La Sacra Porta vedeva in questa minoranza cristiana una possibile alleata dell’Impero Russo cristiano ortodosso, suo tradizionale avversario. Nel 1876, gli eserciti russi, intervenuti a sostegno della Bulgaria impegnata contro gli Ottomani, avevano costretto la Sacra Porta ad accettare l’umiliante trattato di Santo Stefano: documento che sanciva, tra l’altro, la tutela della minoranza armena e la cessione alla Russia di alcune aree dell’Anatolia nord orientale. Tuttavia il trattato non divenne mai del tutto operativo, anche a causa delle pressioni esercitate dall’Inghilterra ostile ad una eccessiva espansione russa verso il Mediterraneo e l’Egeo. E fu così che la clausola relativa alla minoranza armena venne stralciata in nome della real politik. Anche se nel 1878 l’articolo 61 del trattato di Berlino sancì, almeno sulla carta, il diritto alla sopravvivenza di questa comunità. Il sostanziale disimpegno delle nazioni europee permise quindi al sultano Abdul Hamid di abolire la fragile costituzione concessa nel 1876, e di varare nuove, severe leggi contro le minoranze religiose dell’Impero. Dopo avere costituito un’efficiente polizia segreta incaricata di schiacciare il neonato Movimento Indipendentista Armeno, il sultano incoraggiò le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le "regioni" armene della Turchia orientale. Forti dell’appoggio del governo, i curdi si insediarono così in territorio armeno, scacciandone con la forza l’intera popolazione. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a fuggire verso le regioni caucasiche russe: manovra che la Sacra Porta volle interpretare come un atto di connivenza con il nemico zarista. Fu a quel punto che il Movimento Indipendentista Armeno, attraverso le sue organizzazioni politiche (l’Armenakan, fondato nel 1885; il partito socialdemocratico Hunchak, 1887; e il più radicale "movimento" Dashnak, fondato nel 1890), tentarono di reagire con la forza al potere centrale. Ovviamente, la risposta del sultano non si fece attendere. Questi organizzò le tribù curde in veri e propri organismi paramilitari (i reggimenti Hamidye) dando ad essi mano libera nel perseguitare ed eliminare tutte le comunità armene "ribelli". Ma se i cristiani rimasti incapsulati in territorio ottomano se la passavano male, anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi nelle zone caucasiche controllate dai russi non poterono certo considerarsi tranquilli. Nel 1881, in seguito all’assassinio dello zar Alessandro II, il primo ministro liberale, l’armeno Loris Melikov, dovette rassegnare le dimissioni in quanto ritenuto incapace di gestire il crescente malcontento delle popolazioni georgiane e armeni del Caucaso. E dopo l’uscita di Melikov, il nuovo governo di San Pietroburgo abbandonò qualsiasi simpatia nei confronti dell’etnia armena considerata inaffidabile. Nel 1903, lo zar Nicola II tentò addirittura di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena, ordinando la chiusura di scuole e di altre istituzioni della Transcaucasia russa. Il nuovo atteggiamento russo consentì al sultano Abd ul-Hamid di accelerare il processo di annientamento delle comunità armene accusate, tra l’altro, di sostenere quelle frange estremiste del Movimento Indipendentista che, tra il 1890 e il 1894, in Turchia avevano effettuato una serie di gravi attentati terroristici. Nel 1894, un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a non pagare ai capi curdi locali l’"hafir" o contributo per la protezione. L’"hafir" era una forma di estorsione legalizzata a beneficio dei curdi che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni. L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia, scandalizzate dall’inasprirsi delle misure anti-armene, intimarono al sultano di fermare la repressione. Ma la richiesta venne respinta da Hamid che per contro intensificò ulteriormente la sua politica. Le truppe turche e curde proseguirono così il saccheggio sistematico di centinaia di villaggi armeni. E tra il 1894 e il 1896, le forze ottomane e curde eliminarono dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del sultano. Dal canto suo il kaiser Guglielmo II optò invece per un atteggiamento più distaccato e dettato da precisi calcoli politici ed economici. Il Kaiser era infatti desideroso di portare a termine la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di allargare la sua sfera di influenza tedesca in Medio Oriente e Mesopotamia.

Nel frattempo, però, la perdurante crisi politica, economica e sociale dell’Impero Ottomano si stava facendo sempre più acuta, sfociando in gravi sommosse. Verso la fine dell’Ottocento a Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito in combutta con alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, iniziarono a tramare contro lo sclerotico governo centrale. Nella fattispecie, il cosiddetto Movimento dei Giovani Turchi auspicava addirittura l’eliminazione del sultano per poi avviare un ambizioso e rivoluzionario processo di modernizzazione dell’Impero. La rivolta scoppiò nel 1908, a Monastir. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al sultano di ripristinare la costituzione del 1876. Avendo perso il controllo di buona parte dell’esercito, il sultano cedette e la costituzione venne ripristinata il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose dell’Impero che confidavano nell’inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, gli ufficiali ribelli dettero a tutte le minoranze ampie garanzie di tolleranza. Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario ordito da Hamid, i Giovani Turchi, guidati da Taalat Pascià, deposero definitivamente Hamid, sostituendolo con il più innocuo fratello Muhammad. Questi accettò infatti di buon grado le direttive degli ufficiali rivoluzionari che, nel frattempo, avevano però cominciato a cambiare strategia politica. Abbandonati i proclami inneggianti l’"armonia tra le varie componenti etniche e religiose dell’Impero", essi abrogarono tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei e arabi. All’indomani della sconfitta subita ad opera dell’Italia nel 1912 e i rovesci subiti dai turchi nella Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913, un triumvirato formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal prese il potere. E nel timore di un dissolvimento dell’Impero, proclamò la "turchizzazione" dell’Impero e la "ghettizzazione" di tutte le minoranze, prima fra tutte quella cristiana armena. Dopo l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano (29 ottobre 1914) a fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena - ignorando le manovre dei Giovani Turchi - volle dimostrare al governo la sua assoluta fedeltà. E nell’estate del 1914, ad Erzerum, in occasione dell’ottavo congresso del partito Dashnak, i leader del movimento indipendentista armeno invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di soldati dell’Impero. Nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna caucasica dell’inverno 1914-1915 contro i russi, grande valore e affidabilità. All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, indetta per pianificare lo sterminio degli armeni, il segretario esecutivo Nazim concluse con queste parole i lavori dell’assemblea: "Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per eliminare tutta la popolazione armeno. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa". Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. "Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle". Sempre nel corso della seduta il Comitato aveva deciso che la gestione della "pratica armena" sarebbe stata affidata ad una speciale commissione formata dal segretario esecutivo Nazim, da Behaettin Shakir e dal ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta "Organizzazione Speciale" (la Teshkilate Makhsusa), una specie di milizia formata in buona parte da ex detenuti ai quali venne promessa la libertà in cambio di criminali servigi. All’inizio della primavera 1915, i turchi scatenarono l’esercito e le bande curde contro gli indifesi villaggi armeni. Successivamente, le forze turco-curde incominciarono ad arrestare - accusandoli di connivenza con il nemico russo - tutti gli esponenti dei vari partiti armeni. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià, pare si divertisse a fare inchiodare ferri di cavallo ai piedi dei prelati. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 600 armeni vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro. Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915 circa 2.000 soldati armeni reduci dalla campagna del Caucaso vennero disarmati dai turchi e spediti nella zona di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Giunti sul posto, gli armeni vennero fatti ammassare in una piccola valle e massacrati a colpi di mitragliatrice. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni condotti in località Diyarbakir e lì trucidati dai miliziani curdi. Nel giugno 1916, dopo avere trucidato circa 150.000 militari armeni, i turchi decisero di eliminare anche un terzo degli operai cristiani impiegati nella manutenzione della ferrovia Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, gli alleati tedeschi, scioccati dalle orrende carneficine, dissero basta. L’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich accusò Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià "di inutili crudeltà" e persino "di sabotaggio": denunce che lasciarono impassibili i capi ottomani decisi a proseguire con pulizia etnico-religiosa.

Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca barricandosi nel nucleo urbano e resistendo alla controffensiva ottomana e curda fino al sopraggiungere di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio li liberò dall’assedio. Eguale successo ebbe poi la ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro si rifugiarono circa 4.000 armeni decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei reparti regolari dell’esercito ottomano e alla fine vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese.

Purtroppo, altri tentativi di resistenza non ebbero la medesima fortuna. Come accadde alla comunità di Urfa che venne annientata. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il ministero degli Interni ottomano passò alla seconda fase dell’"olocausto": l’eliminazione di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati poiché ritenuti necessari al lavoro nelle campagne. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. "Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza". I turchi organizzarono deportazioni di massa (risparmiando soltanto i medici e qualche tecnico) in località isolate. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene vennero ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti. Nell’inverno del ’15 il conte Wolff-Metternich riferì a Berlino del protrarsi di questi "inutili e crudeli eccidi". Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich. E nel 1916 il diplomatico dovette rientrare in Germania. A testimonianza dei risvolti economici della strage in corso (la totalità dei conti correnti e dei beni mobili ed immobili della popolazione armena furono confiscati dal governo turco), basti pensare che "i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi".

Va comunque detto che alcuni, anche se pochi, governatori (i vali) turchi si rifiutarono di eseguire tutti gli ordini impartiti da Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il governatore di Ankara - che si era opposto agli stermini indiscriminati - venne rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, come, ad esempio, il vali Gevdet che nell’estate del ’15 a Siirt non si fece scrupolo ad eliminare 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati nelle memorie di numerosi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e italiani presenti all’epoca in Turchia. Il 25 agosto 1915, Il Messaggero di Roma pubblicò la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Il plenipotenziario affermò che "degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915. il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati". Intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai campi delle città di Deir al-Azor. Questi primordiali "lager", privi di baracche, servizi igienici, accolsero all’interno dei loro perimetri cintati da filo spinato, decine di migliaia di profughi. "Ben presto - come narra David Marshall Lang nel suo ben documentato "Armeni, un popolo in esilio" - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo". Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da allarmare il generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare una qualche forma di assistenza, seppure contrastato dalle autorità ottomane. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di averle fatte convertire forzatamente all’Islam. Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby provenienti dalla Palestina occuparono entrarono in Siria trovarono in alcune baracche di un campo militare turco abbandonato diverse decine di giovani donne, tutte marchiate dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi disgraziati vennero inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come "veri mussulmani" dalla "signora" Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di "raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena". Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del "problema armeno". Nei campi, "i cristiani infedeli morivano troppo lentamente". Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero quindi un ulteriore giro di vite alla prassi dello sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di "eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici". In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del distretto di Deir al-Azor, Zekki che - secondo quanto scrive J. Bryce (autore di "The Treatment of Armenians") - "rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete". Durante l’estate del 1916, gli sgherri di Zekki eliminarono oltre 20.000 armeni.

A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere "l’elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze". Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, per le comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso il destino stava per compiersi. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane avevano iniziato una vera e propria caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 19.000 armeni. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi in Georgia e nella regione di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre 1918, nella sola regione di Baku furono eliminati 30.000 armeni. Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili turchi delle stragi sparirono nell’ombra. Quando, nell’ottobre 1918 la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dagli inglesi ed internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte in contumacia Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia. Tuttavia, il 15 marzo 1921, a Berlino, Taalat Pascià venne assassinato dallo studente armeno Soghomon Tehlirian. E sorte analoga toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, ucciso a Tbilisi, in Georgia, da un altro giovane armeno. Curiosa, ma in linea con il personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più capace e "idealista" dei triumviri. Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica di Bukhara, dove pensava di realizzare il suo antico sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne sconfitto e ucciso dai bolscevichi.

 

BIBLIOGRAFIA

David Marshall Lang, "Armeni, un popolo in esilio", Edizioni Calderini, Bologna 1989.

E. Bauer, "Arménie. Son histoire et son présent", Lausanne and Paris, 1977.

M.S. Anderson, "The Eastern Question, 1774-1923", London, 1966.

Henry Morgenthau, "Ambassador Morgenthau’s Story", New York, 1919.

Rafael de Nogales, "Four Years beneath the Crescent", London, 1926.

Ulrich Trumpener, "Germany and the Ottoman Empire, 1914-1918", Princeton, 1968.

Franz Werfel, "The Forty days of Musa Dagh", trans. G.Dunlop, London, 1934.

 

La Turchia ed il genocidio degli Armeni (guide supereva.it)

Sitografia sui genocidi nel mondo

 

 

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Ipertesto realizzato dal Prof. Giuseppe Landolfi

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