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La Stampa - 03 - 12 - 2004

CINQUANT’ANNI FA VENIVA NOMINATO PRIORE DI BARBIANA: DOVEVA ESSERE UN ESILIO, 
DIVENTÒ IL CAPOLAVORO DEL SUO IMPEGNO

DON Lorenzo Milani diventò Priore di Barbiana - titolo con cui è passato alla storia - il 7 dicembre 1954, giusto 50 anni fa. Un suo ex alunno, oggi settantaseienne, ricorda così la sua partenza da San Donato di Calenzano, una contrada pulsante di vita e di attività alle porte di Firenze, ove don Lorenzo era stato assegnato come viceparroco all'indomani della sua ordinazione sacerdotale: «Don Milani partì nel primo pomeriggio di una piovosa giornata d'autunno. Davanti alla sua chiesa, salì su un vecchio camion, solitamente adibito al trasporto del bestiame, con tutti i suoi libri e le masserizie, e iniziò il viaggio verso una "chiesetta di montagna" a circa 50 km di distanza, trasferito d'autorità dal suo arcivescovo». Si concludeva in questo modo un settennato, ricco di «esperienze pastorali» fortemente innovative, tra cui il primo nucleo di quella «scuola popolare» che, dopo San Donato, diverrà la formula più nota del suo impegno sacerdotale a Barbiana. Da tempo don Milani presentiva l'allontanamento, e proprio in una «chiesetta di montagna», come scrisse alla mamma nel luglio del 1952: «Ho l'impressione che la mia carriera ecclesiastica stia precipitando… Quanto alla data dell'attacco finale, finora probabilmente era fissata per il giorno della morte del Proposto. Ma se il Proposto non accenna ad ammalarsi, non credo che mi lasceranno qui fino alle prossime elezioni… Io son grato al Signore di ogni minuto di più che mi lascia a San Donato perché son tutti regalati. Te non ti dar pensiero perché sai che mi son sempre trovato bene dappertutto… In quanto a San Donato, io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni, non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquant'anni sotto il sedere dei miei vincitori». C'è già in queste righe tutta la rude franchezza del giovane prete, che sempre però si accompagnò a una fede adamantina («Trasparente e duro come un diamante - disse di lui una volta il suo direttore spirituale - doveva ferirsi e ferire»); a una totale obbedienza all'autorità ecclesiastica, nonostante il costo fisico e morale che comportava; all'attaccamento alla sua Chiesa, coperta di rughe come una vecchia, ma sempre madre. Semmai le rughe della Chiesa lui cercò di eliminarle, perché risplendesse in tutto il suo fulgore di sposa di Cristo. A decidere la nuova destinazione - e la «promozione» a priore-parroco - fu l'arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, noto per le sue aperture e per la sua mitezza. Non sappiamo con quali sentimenti e dietro a quali pressioni il prelato si mosse, ma un testimone ha riferito che nella canonica di San Donato, davanti a due fedelissime collaboratrici di don Lorenzo, madre e figlia, il cardinale ebbe a dire: «Don Milani è una campana stonata che deve essere isolata». In che cosa consistesse la stonatura lo scrive lo stesso don Lorenzo nella lettera alla mamma che abbiamo citato: «Ho sempre guardato d'essere cristiano e cattolico e ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno più vicino, tanto è vero che mi dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza è soltanto sul modo di diffusione». La diffusione della fede lui voleva che fosse improntata a un autentico spirito missionario, innervata nel quotidiano, limpida e tersa come sta nel Vangelo, incarnata nel tempo e nella storia e nella vita dei fedeli a lui affidati, a cominciare dai più poveri e ignoranti, capace di scuotere le coscienze e metterle in crisi, di smantellare le ipocrisie. Nasce in questo contesto il suo unico vero libro, Esperienze pastorali, anche se di lui si conoscono altri due scritti famosi, L'obbedienza non è più una virtù del 1965, a forti tinte polemiche sul servizio militare, la guerra e l'obiezione di coscienza, che gli procurano una denuncia e un processo da cui uscì assolto; e la Lettera a una professoressa che però don Milani considerava più un'esercitazione di gruppo che un'elaborazione personale. La prima copia stampata della Lettera gli fu recapitata sul letto di morte, ma le sue intuizioni e le sue invettive per il modo in cui veniva impartita l'istruzione scolastica sono valide ancora oggi. La vicenda di Esperienze pastorali è esemplare: don Lorenzo ci lavora attorno per cinque anni, dal 1952 al '57, quando finalmente ne decide la pubblicazione. E' il libro che lega San Donato a Barbiana e spiega la genesi e l'impatto di tutto il suo magistero. Il testo apparve con l'imprimatur del cardinale Dalla Costa e una prefazione di 26 pagine dell'arcivescovo di Camerino, Giuseppe D'Avack. Diviso in due parti e sette capitoli, parla prevalentemente di fede e sacramenti e del modo migliore di promuoverne la conoscenza e la pratica. Convinto però che le questioni sociali non sono solo un problema civile, don Milani vi «azzanna» anche la miseria, l'emarginazione dei poveri e degli analfabeti, il lavoro e la casa, le responsabilità dei politici e della Chiesa. Fedele alla regola che s'era dato: «Io non vendo le mie singole prestazioni, ma vendo la mia vita intera a una comunità intera e quel che faccio lo faccio per tutti uguale, e non faccio piaceri speciali a nessuno, perché tutti sono ugualmente miei figlioli». Rischiando così di non piacere a nessuno, né ai comunisti che accusava di «mancanza d'amore» nelle loro rivendicazioni, né ai democristiani e ai borghesi che lo consideravano un «utile idiota», che era allora la versione volgare di catto-comunista. L'irritazione crebbe in parallelo con il successo del libro, al punto che la gerarchia si credette in dovere di intervenire, tramite l'allora Sant'Uffizio, condannandolo pubblicamente, imponendone il ritiro dal commercio e proibendone ristampe e traduzioni. Con questo pesante bagaglio don Milani viveva intanto a Barbiana, il luogo del suo «confino», popolato da poche decine di famiglie di contadini semianalfabeti di cui si fece «maestro» devoto ed esigentissimo, senza una strada carrozzabile, senza luce elettrica e acqua corrente, lui che era abituato a tutti i comfort borghesi della bella casa di Firenze. La sua fragile salute, già minata dalla leucemia, ricevette lassù il colpo di grazia. Nel marzo del 1967 tornerà definitivamente a casa dalla mamma - ebrea, atea come il padre, morto durante i suoi anni di seminario - addolorata ma sempre rispettosa della volontà del figlio amatissimo, per morirvi poco dopo per il cancro che lo tormentava da anni, a soli 44 anni. Sono passati cinquant'anni da quell'uggioso pomeriggio di San Donato. In fondo, le cose che diceva allora don Milani, oggi le grida con le forze che gli restano Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro, rivolgendosi agli scout e ai ragazzi dell'Azione cattolica: siate audaci nel nome di Cristo, prendete il largo senza paura, non vergognatevi del Vangelo… Le piaghe della Chiesa contro cui si batteva, le sue rampogne per l'inerzia e la pavidità dei cristiani, che tanto impensierivano le gerarchie del tempo, sono divenute ammissioni di colpa e implorazioni di perdono. Non è giunto il tempo di rivalutare pubblicamente la figura e l'opera di questo instancabile servitore della Chiesa e dei poveri? Ci contano gli amici e ammiratori che la mattina del 7 dicembre prossimo si ritroveranno a Barbiana e ricorderanno con una visita al cimitero e una messa l'indimenticato «maestro». 

leonardo.zega@stpauls.it

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