COLTIVAVANO IL BASILICO NELLA VASCA DA BAGNO
Percorso sull'emigrazione interna in Italia degli anni '50-'60
a cura di Patrizia Vayola

Presentazione prerequisiti e competenze da attivare
TAPPA 1: LA REALTÀ DEI RAGAZZI TAPPA 2: I DATI QUANTITATIVI TAPPA 3: LA PROBLEMATIZZAZIONE
TAPPA 4: IL QUESTIONARIO ALLE FAMIGLIE TAPPA 5: LE INTERVISTE A CONFRONTO Sitografia Bibliografia

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Dai campi alla fabbrica

I fenomeni migratori degli anni cinquanta e sessanta, intensificatisi di pari passo con l’intenso ritmo di sviluppo economico delle regioni del triangolo, sono il riflesso di una accentuazione di nuovi squilibri territoriali con la netta individuazione da un lato “delle aree dello sviluppo industriale e del terziario burocratico-amministrativo, come luoghi di attrazione al Nord-Ovest e al Centro del paese, dall’altro delle aree di fuga dal Nord-Est, dalla maggior parte del centro e da tutto il Mezzogiorno d’Italia”[1]. Molteplici le cause di questi trasferimenti di massa: dal fallimento della riforma agraria agli insufficienti interventi della Cassa del Mezzogiorno, alla mancanza di occupazione,  alle sistematiche violazioni della legge sul lavoro e degli accordi sindacali nel luogo di partenza, alla fuga dalla miseria e all’irrompere di nuovi bisogni[2]. E’ soprattutto l’immigrazione meridionale al Nord a  rappresentare uno degli aspetti fondamentali del cambiamento nella struttura e dell’evoluzione della società italiana, attirata dalle possibilità di occupazione nelle  fabbriche bisognose di manodopera generica e non specializzata nella fascia d’età dai 20 ai 40 anni[3]. Anche se in corrispondenza dell’ampia offerta di lavoro il problema della disoccupazione si riduce sensibilmente, lo sviluppo presenta limiti da porre in relazione alla tendenza alla concentrazione dello sviluppo industriale[4].

Secondo Castronovo il Piemonte accoglie la maggior parte delle forze lavorative:
si calcola che fra il 1952 e il 1969  il saldo attivo, fra iscrizioni anagrafiche di provenienti da altre regioni e cancellazioni di persone dirette fuori della regione, sia stato di 800.000 unità. Questo imponente afflusso immigratorio, avvenuto attraverso peregrinazioni da un posto all’altro in cerca di una migliore sistemazione, in aggiunta ai rilevanti fenomeni di spostamento di forze di lavoro interne dall’agricoltura ad altre attività, diede luogo a un radicale mutamento del quadro demografico regionale[5].

Ma per Ginsborg è soprattutto Torino ad assorbire un’ondata immigratoria che raggiunge nel periodo del “miracolo economico” percentuali altissime. “La città aumentò dai 719.300 abitanti del 1951 a 1.124.714 del 1967. Tra il 1961 e il 1967 i ventitré comuni dell’hinterland crebbero di oltre l’80%. Il flusso dal Sud era così grande e continuo che alla fine degli anni ‘60 Torino era diventata la terza più grande città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo”[6].

L’astigiano invece si presenta a partire dai primi anni del dopoguerra anche come terra di emigrazione, sia verso l’estero - con punte massime nel triennio post bellico e la tendenza a ridursi nel tempo a cifre minime, diretto  verso il Belgio, la Francia e in misura minore verso l’Australia tanto per la manodopera specializzata che generica- sia verso i centri industriali di Torino, Milano e Genova[7].  L’arrivo degli immigrati inverte quindi il calo demografico che caratterizza la provincia, determinando tra il 1951 e il 1961 un tasso di incremento annuo del 1,7 %, dovuto quasi esclusivamente ai movimenti migratori e all’innalzamento dei quozienti di prolificità di solito superiori nei nuovi nuclei famigliari rispetto a quelli locali. Il saldo attivo sociale (immigrati nel decennio meno emigrati) incide infatti per il 92% sulla crescita totale della popolazione[8].

Sul territorio si possono distinguere due ondate successive: la prima proveniente dalle zone depresse del Veneto, diluita in un arco temporale abbastanza ampio compreso tra l’inizio della seconda guerra mondiale e la prima metà degli anni cinquanta, la seconda in arrivo dalle regioni meridionali, a carattere massiccio e rapido, concentrata negli anni del boom[9]. La provincia quindi si “meridionalizza”. Infatti, mentre, sempre nel decennio 1951-1961, si determina una forte emorragia di locali verso le altre province piemontesi (oltre 18.792 unità), liguri e lombarde (oltre 3747) e un costante afflusso dal Veneto e dall’Emilia (5559), dal sud giungono circa 8621 persone, di cui 4822 dalla sola Sicilia e 1607 dalla Sardegna. Intensi anche i flussi dalla Basilicata, dalla Campania e dalla Calabria[10]. Ecco in dettaglio l’andamento della popolazione nel Comune di Asti, dove si stabilisce una quota preponderante dei nuovi insediati:


Tav.21.

MOVIMENTO DELLA POPOLAZIONE DEL COMUNE DI ASTI

ANNO

NATI

MORTI

IMMIGRATI

EMIGRATI

POP. FINE PERIODO

1946

1947

1948

1949

1950

1951

1952

1953

1954

1955

1956

1957

1958

1959

1960

1961

1962

1963

1964

1965

1966

1967

1968

641

657

580

561

557

529

528

541

578

576

659

631

649

691

736

767

864

971

1.089

1.064

1.081

1.013

1.133

649

621

587

546

593

598

618

594

568

611

650

659

621

656

653

665

759

813

762

765

792

814

902

2.359

1.696

1.599

1.267

1.448

1.334

1.499

1.672

2.554

2.174

2.137

2.051

2.594

2.605

2.543

3.823

3.571

3.713

3.571

2.980

3.250

3.624

3.328

1.599

1.270

1.525

1.284

1.405

1.013

877

1.284

1.344

1.552

1.518

1.360

1.378

1.636

1.675

2.010

1.699

2.010

2.151

1.981

2.014

2.054

2.019

51.604

52.066

52.133

52.091

52.098

52.350

52.615

52.950

52.170

52.757

55.385

56.048

57.292

58.296

59.247

61.162

63.471

65.332

67.079

68.377

69.902

71.671

73.211

Fonte: Centro elaborazione dati del comune di Asti.

In realtà molto spesso Asti è solo un luogo di transito in attesa di successivi spostamenti verso Torino, ultimo centro urbano di una certa consistenza che i viaggiatori del famoso treno del sole incontrano prima di giungere al capoluogo di regione, in grado di offrire tutti servizi e un sistema di vita cittadino nonché un costo degli affitti inferiore a quello della vicina area metropolitana comunque facilmente raggiungibile[11].

Le prime comunità di emigranti si formano attraverso la “catena della chiamata”, resa possibile dal ruolo di mediazione svolto dai primi arrivati in grado di offrire l’appoggio indispensabile al trasferimento ad amici e parenti sia dal punto di vista abitativo che occupazionale secondo le specificità legate al periodo di permanenza e al numero dei componenti del nucleo famigliare[12].

Inizialmente gli immigrati trovano occupazione come mezzadri o garzoni nelle campagne in sostituzione dei contadini inurbati o nelle aree orticole intorno alla città dove sono impegnati nei lavori stagionali di cernita, raccolta e distribuzione dei prodotti ortofrutticoli, in un’attività estesa nella piana alluvionale lungo il Tanaro e resa vantaggiosa dalla crescente domanda dei mercati urbani e dal collegamento con l’industria alimentare locale[13]. In seguito i nuovi abitanti entrano nel mercato del lavoro come manovali nell’edilizia in forte espansione  dai primi anni cinquanta,  legata all’insediamento in città di parte dell’esodo contadino e  alla modifica dell’assetto urbanistico risultato del progressivo abbandono del centro storico e della costruzione di nuove abitazioni in periferia. Giovani e quarantenni rimangono occupati in questo comparto ancora per tutti gli anni sessanta, impegnati con ditte che lavorano all’edificazione di nuovi edifici e con imprese appaltatrici di opere pubbliche. Malgrado il mestiere sia faticoso per gli orari di lavoro prolungati, le  scarse se non nulle  misure di sicurezza e i frequenti gli avvicendamenti,  viene preferito per la retribuzione, più alta di quella percepita in agricoltura: un manovale edile intorno al 1960 guadagna circa 60.000 lire mensili mentre un garzone riceve a fine stagione  140.000 lire[14]. Alcuni, dopo aver appreso il mestiere, “riuscendo abili carpentieri, muratori, piastrellisti e scaglionisti”, diventano lavoratori a cottimo sempre alle dipendenze delle imprese edili con la possibilità di gestire il lavoro autonomamente spesso con l’aiuto di un socio o “di ex manovali diventati operai nelle industrie, disposti a fare il doppio lavoro, facilmente reperibili tra parenti, amici e compaesani”[15]. E gli impresari traggono notevoli vantaggi economici da queste modalità di rapporto soprattutto dal punto di vista contributivo in quanto  versano solo le somme necessarie a coprire le otto ore lavorative e non le rimanenti.

Frequenti i casi di lavoro minorile, determinati spesso dalle ristrettezze economiche delle famiglie, in genere numerose, obbligate per necessità a trasformare un minorenne in un lavoratore, ma anche frutto dei frequenti insuccessi scolastici legati alle difficoltà di comprensione e di espressione della lingua italiana.

L’ingresso nelle fabbriche rappresenta quindi l’epilogo di un iter complesso dopo una  fase di passaggio nell’agricoltura e nell’edilizia, ritardato dalle iniziali resistenze imprenditoriali nell’ assumere  manodopera meridionale cui si preferisce quella locale di origine contadina, poco politicizzata e abituata a intensi ritmi di lavoro[16].

La prima industria cittadina a fornire lavoro stagionale e a domicilio agli immigrati è la Saclà, fonte di reddito anche per numerosi astigiani in precarie condizioni economiche come rileva il settimanale “Il Lavoro”:

Ogni giorno lavorativo, dalle 17 alle 18, una lunga coda di uomini, in bicicletta, con carretti, a piedi, con sacchi o cesti in spalla, sosta davanti all’entrata dello stabilimento Saclà. A turno, quella piccola folla di persone stracarica, si avvicina al peso dove un addetto controlla il contenuto dei sacchi e delle ceste e distribuisce altri quantitativi della stessa merce [....] Disoccupati, donne che hanno il marito disoccupato e bambini da mantenere, vecchiette, prelevano sacchi di cipolline, se le portano a casa, le pelano diligentemente avendo cura di tenere da una parte i residui, dall’altra le cipolline pelate, quindi riportano il tutto e ne ricevono in compenso la spropositata somma di 10 lire al chilogrammo [....] è chiaro che il signor Ercole non può permettersi il lusso di pagare i contributi agli operai [...][17]

Lo stabilimento, situato nel rione San Rocco, si avvale di tre gruppi di dipendenti: i lavoratori fissi, in maggioranza piemontesi, gli assunti stagionali, più dei tre quarti donne, e i lavoratori a domicilio, categoria molto numerosa. Nei mesi estivi l’azienda distribuisce alle famiglie, in particolare a quelle che risiedono nel Casermone, i vegetali da preparare per le successive lavorazioni, attività che  coinvolge non solo  uomini e donne ma anche  anziani e bambini[18]. Sistematica la violazione della legge per tutela del lavoro a domicilio per il mancato versamento dei contributi mutualistici e pensionistici, con un’elusione resa possibile dalla denuncia all’Ispettorato del Lavoro del solo capofamiglia e non di tutto il nucleo, e un collegato stimolo al sub-appalto cioè al trasferimento di parte del lavoro ad altre persone, come ricorda Virciglio[19]:

[...] non c’era cortile del borgo San Rocco dove non si ripulissero, pelassero e tagliassero ortaggi, consegnati a domicilio, con i camion, in cassette da lavorare e ritirare, pronte per la conservazione. Il grande cortile del Casermone, in certi periodi dell’anno, sembrava un grande opificio, dove instancabilmente, anche di notte, intere famiglie lavoravano i prodotti della Saclà. Il lavoro era retribuito in base al numero di cassette lavorate. Il misero ricavato era una necessaria integrazione allo stipendio del capofamiglia[20].

Dure  le condizioni anche per i lavoratori stagionali in quanto la risoluzione del contratto può avvenire in qualsiasi momento, in dipendenza dalle esigenze produttive, senza che il periodo trascorso in servizio dia diritto ad indennità[21]. Al contrario il rapporto tra datore di lavoro e maestranze autoctone è privilegiato e segue la prassi del premio fuori busta, tipico nelle aziende a conduzione famigliare. Come rammenta Giuseppe Buttaci, il primo nativo di Milena assunto fisso nel 1959, i piemontesi erano abituati ad avere un aumento spontaneo dal padrone. Nel 1961 abbiamo scioperato senza appoggio dei sindacati richiedendo un aumento di paga anche per gli stagionali: due lire in più per svernare. La lotta durò 18 giorni. Chi non ce la faceva andava a zappare o a fare il muratore. L’accordo: 20 lire in più per gli stagionali e 18 per i fissi. Da lì sono nati i sindacati che l’azienda ha accettato per ammorbidire gli animi dei lavoratori[22].

Nonostante i bassi salari, le dure condizioni di lavoro per i fumi dei vapori e l’elevata umidità, per molte donne meridionali l’ingresso come stagionali alla Saclà segna un punto di rottura con il tradizionale ruolo di madre e casalinga e l’esperienza di fabbrica diventa fonte di emancipazione. L’assunzione avviene mediante l’ausilio di mediatori, solitamente preti, garanti della buona condotta morale dei soggetti e della loro predisposizione all’obbedienza.

Agli uomini invece si presenta inizialmente la possibilità di diventare operai a bassa qualifica e  cottimisti nelle piccole aziende, in particolare nelle fornaci, e di occupare quindi i posti disponibili dai quali i lavoratori locali tendono a rifuggire  perché faticosi e spesso scarsamente protetti dalla legislazione sociale[23]. L’esistenza poi di una manodopera instabile e poco qualificata fornisce agli imprenditori la possibilità di avviare politiche aziendali di bassi salari e di infrazione di norme  contrattuali[24].

Diversa la collocazione degli immigrati sardi richiamati a Canelli dalla presenza delle industrie del sughero, la cui lavorazione è diffusa nella regione di partenza. Il mantenimento di contatti con il luogo di origine permette la nascita di attività di rilievo tra cui spicca l’intraprendenza di un piccolo artigiano del settore giunto in provincia agli inizi degli anni cinquanta, Careddu, diventato uno dei colossi mondiali del comparto[25].

Solo a cavallo degli anni sessanta gli immigrati accedono alle maggiori aziende cittadine, sia quelle “storiche” che quelle di nuova formazione, vero e proprio miraggio per coloro in cerca di un’occupazione stabile e ben retribuita, in grado di garantire l’assistenza mutualistica e pensionistica. Alcuni vengono assunti dopo un periodo di lavoro nelle imprese appaltatrici che svolgono lavori all’interno degli stabilimenti mentre altri si avvalgono di un canale privilegiato, quello della politica. Asserisce Virciglio: i milocchesi ad Asti cominciavano ad essere tanti[...]ed avevano tutti lo stesso medico che era legato al partito liberale [....] Il loro mediatore era quindi il medico di famiglia, il dott.Ferraris il quale, attraverso un dirigente dell’Avir, membro della segreteria provinciale del Pli, riusciva a far assumere, in cambio di un sostegno elettorale, alcuni milocchesi alla Vetreria[26].

Anche sui nuovi arrivati  il polo torinese esercita una forte capacità di attrazione e partono le prime e inizialmente rare assunzioni alla Fiat, con notevoli sacrifici legati alla pendolarità, ma resi  sopportabili dal  salario più elevato rispetto alle fabbriche  cittadine. Si riconferma il ruolo determinante della Chiesa che ha spesso giocato - evidenzia Virciglio - un ruolo normalizzatore nell’ambito della società[... ]Nell’ottobre 1965 il vescovo di Caltanissetta per doveri pastorali si trovava a Torino e d’accordo con l’arciprete di Milena, padre Taffaro, organizzò una visita agli immigrati provenienti dalla sua diocesi. Ecco il ricordo dell’arciprete:<<La Fiat mise a disposizione una “Fiat 2500” con relativo autista per trasferirsi da Torino ad Asti>>. Questo episodio la dice lunga sull’importanza attribuita dalla Fiat ai ministri della Chiesa nel loro ruolo di mediazione e di prima selezione attraverso la raccomandazione dell’operaio modello[27].

Punto di arrivo per la stragrande maggioranza degli immigrati, l’ingresso in fabbrica segna la fine della precarietà e l’inizio di un progressivo processo di integrazione nella società ospite, seppur lento e irto di ostacoli.

Enza Prestigiacomo

(dalla tesi di laurea Marginalità e crescita industriale in una città di  provincia. Asti, 1965-74, anno accademico 1999-2000, facoltà di lettere e filosofia, Università di Torino, pag.114-124)

[1] E. Sonnino, La popolazione italiana: dall’espansione al contenimento, in Storia dell’Italia Repubblicana, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Vol. II, tomo I, Einaudi, Torino, 1995, p.536. Per un quadro ricco e articolato del fenomeno delle migrazioni interne si veda: G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, cit.; F.Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli emigrati, Feltrinelli, Milano, 1975.

[2] G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p.84; E. Santarelli, Storia critica della repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Feltrinelli, Milano, 1996, pp.90-96.

[3] E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, in Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. II, tomo I, cit. pp. 437-440.

[4] Ibidem, p.439.

[5] V. Castronovo, Il Piemonte, cit., p. 655.

[6] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989, p.298.

[7] Camera di Commercio, Caratteri economici e disoccupazione, cit., p.4. La manodopera specializzata si dirige verso la Svizzera (attività enologiche), l’Argentina (metalmeccanici e artigiani), la Francia (agricoltori) mentre negli altri paesi si spinge la manovalanza generica con scarsa o nulla preparazione professionale.

[8] Comune di Asti (a cura di) La struttura sociale e economica del Comune di Asti, dicembre 1966, pp.9-10.

[9] A. M. Morando, Mobilità geografica della popolazione del Comune di Asti, Tesi di laurea, Università degli studi di Torino, Facoltà di Magistero, Relatore G. Matteis, A.A. 1970-1971, p.41.

[10] I dati sul movimento migratorio da e per la provincia di Asti dalle singole province, dalle regioni e dall’estero sono riportati in Camera di Commercio, Movimento migratorio della provincia di Asti. 1955 - 1964, Scuola tipografica San Giuseppe, Asti, 1965, reperibile in ISRAT, PCI, Serie Organizzazione, b.1, fasc.2.

[11] M. Fumagalli, Una regione prevantemente  agricola entro un’area industriale avanzata, cit., p. 273.

[12] G. Virciglio, Milocca al Nord, cit., p. 13.

[13] V. Castronovo, Il Piemonte, cit., p. 623. Dalla fine degli anni cinquanta si estende nella pianura lungo il Tanaro, tra Alba e Asti, la coltura dei peperoni e dei pomodori, coltivati nelle serre e fatti maturare precocemente per soddisfare la richiesta dei grandi mercati urbani.

[14] G. Virciglio, Milocca al Nord, cit., pp. 109-110. La stagione di un garzone copre un arco di tempo compreso tra l’inizio della primavera e l’11 novembre, giorno di San Martino.

[15] Ibidem, pp.111-112.

[16] Cfr., P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 301; D. Freilino, IL ‘68 ad Asti: movimenti collettivi e protesta giovanile in una città di provincia, in Asti contemporanea 6, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Asti, p.266.

[17] Supersfruttamento alla Sacla, “Il Lavoro”, 3 ottobre 1951.

[18] Gente da 40 lire all’ora. Inchiesta sulle lavoranti a domicilio, “Il Lavoro”, 2 febbraio 1962.

[19] Operai e padroni. Inchiesta sulle diverse condizioni operaie e sullo sviluppo industriale nell’astigiano e nel’albese, “I Quaderni”, Istituto Nuovi Incontri, Asti, marzo 1966.

[20] G. Virciglio, Milocca al Nord, cit., p.121.

[21] Alla Sacla il signor Ercole vuole in ginocchio gli operai, “Il Lavoro”, 23 giugno 1948.

[22] G. Virciglio, Milocca al Nord, cit.,  p.121.

[23] G. L. Bravo, La solidarietà difficile, Marsilio, Padova, 1972, p.23.

[24] Ibidem, p.25.

[25] Quando il vino fa industria, in Quarant’anni di industria astigiana, cit. La prima fabbrica di sughero è la Deidda di Calangianus ma l’impresa fallisce e dalle sue ceneri nasce il Sugherificio Piemontese.

[26] G. Virciglio, Milocca al Nord, cit., p. 126.

[27] Ibidem, p. 129.

Enza Prestigiacomo, Marginalità e crescita industriale in una città si provincia. Asti, 1965-74, anno accademico 1999-2000, facoltà di lettere e filosofia, Università di Torino

 

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